Philosophie et politique

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Introduzione allo studio della filosofia

Texte d'Antonio Gramsci, extrait des Quaderni, 11

Alcuni punti preliminari di riferimento.

Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a mo­do loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella mini­ma manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il «linguaggio», è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla quistione: è prefe­ribile «pensare» senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» meccanicamente dal­l'ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il proprio villaggio o la provincia, può avere origine nella parrocchia e nell'«attività intellettuale» del curato o del vecchione pa­triarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che ha ereditato la sapienza dalle streghe o nel piccolo intellet­tuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in con­nessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla pro­duzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall'ester­no l'impronta alla propria personalità ?

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l'attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professiona­li e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminar­mente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i li­miti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole gramma­ticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, mo­di di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama «folclore».

Nota I. Per la propria concezione del mondo si appar­tiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisa­mente a quello di tutti gli elementi sociali che condivido­no uno stesso modo di pensare e di operare. Si è confor­misti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. La quistione è questa: di che tipo sto­rico è il conformismo, l'uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamen­te a una molteplicità di uomini-massa, la propria persona­lità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa ele­menti dell'uomo delle caverne e principî della scienza moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filoso­fia avvenire quale sarà propria del genere umano unifica­to mondialmente. Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innal­zarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale piti progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filoso­fia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazio­ni consolidate nella filosofia popolare. L'inizio dell'elabo­razione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un'infinità di tracce accolte senza beneficio d'inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.

Nota II. Non si può separare la filosofia dalla storia del­la filosofia e la cultura dalla storia della cultura. Nel senso più immediato e aderente, non si può essere filosofi, cioè avere una concezione del mondo criticamente coe­rente, senza la consapevolezza della sua storicità, della fase di sviluppo da essa rappresentata e del fatto che essa è in contraddizione con altre concezioni o con elementi di altre concezioni. La propria concezione del mondo rispon­de a determinati problemi posti dalla realtà, che sono ben determinati e « originali» nella loro attualità. Come è pos­sibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spes­so ben remoto e sorpassato ? Se ciòavviene, significa che si è «anacronistici» nel proprio tempo, che si è dei fossi­li non esseri modernamente viventi. O per lo meno che si è «compositi» bizzarramente. E infatti avviene che gruppi sociali che per certi aspetti esprimono la più svi­luppata modernità, per altri sono in arretrato con la loro posizione sociale e pertanto sono incapaci di completa au­tonomia storica.

Nota III. Se è vero che ogni linguaggio contiene gli ele­menti di una concezione del mondo e di una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo piú o meno ristretta e provin­ciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, piú o meno corporativi o economistici, non universali. Se non sempre è possibile imparare piú lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lin­gua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lin­gua di un'altra grande cultura, cioè una grande lingua na­zionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qual­siasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa.

Nota IV. Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità gia scoperte, «socializzarle» per cosi dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamen­to e di ordine intellettuale e . Che una massa di no­mini sia condotta a pensare coerentemente e in modo uni­tario il reale presente è fatto «filosofico» ben piti impor­tante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali.

Connessione tra il senso comune, la religione e la filo­sofia. La filosofia è un ordine intellettuale, ciòche non possono essere né la religione né il senso comune. Vede­re come, nella realtà, neanche religione e senso comune coincidono, ma la religione è un elemento del disgregato senso comune. Del resto «senso comune» è nome collet­tivo, come «religione»: non esiste un solo senso comune, ché anche esso è un prodotto e un divenire storico. La fi­losofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune e in tal senso coincide col «buon senso» che si contrappone al senso comune.

Relazioni tra scienza - religione - senso comune. La re­ligione e il senso comune non possono costituire un ordi­ne intellettuale perché non possono ridursi a unità e coe­renza neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non possono ridursi a unità e coerenza «liberamente» perché «autoritativamente» ciòpotrebbe avvenire come infatti è avvenuto nel passato en­tro certi limiti. Il problema della religione intesa non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta confor­me; ma perché chiamare questa unità di fede «religione» e non chiamarla «ideologia» o addirittura «politica»?

Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono di­verse filosofie o concezioni del mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? E questa scelta un fatto meramente intellettuale o piú complesso ? E non avviene spesso che tra il fatto intellettuale e la nor­ma di condotta ci sia contraddizione ? Quale sarà allora la reale concezione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risulta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare? E poiché l'operare è sempre un operare politico, non si può dire che la filosofia reale di ognuno è contenuta tutta nel­la sua politica? Questo contrasto tra il pensare e l'opera­re, cioè la coesistenza di due concezioni del mondo, una affermata a parole e l'altra esplicantesi nell'effettivo operare, non è dovuto sempre a malafede. La malafede può essere una spiegazione soddisfacente per alcuni individui singolarmente presi, o anche per gruppi piú o meno nu­merosi, non è soddisfacente perd quando il contrasto si verifica nella manifestazione di vita di larghe masse: allo­ra esso non può non essere l'espressione di contrasti prof ondi di ordine storico-sociale. Significa che un grup­po sociale, che ha una sua propria concezione del mondo, sia pure embrionale, che si manifesta nell'azione, e quin­di saltuariamente, occasionalmente, cioè quando tal grup­po si muove come un insieme organico, ha, per ragioni di sottomissione e subordinazione intellettuale, preso una concezione non sua a prestito da un altro gruppo e questa afferma a parole, e questa anche crede di seguire, perché la segue in «tempi normali», cioè quando la condotta non è indipendente e autonoma, ma appunto sottomessa e su­bordinata. Ecco quindi che non si può staccare la filoso­fia dalla politica e si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico anch'essa.

Occorre dunque spiegare come avviene che in ogni tem­po coesistano molti sistemi e correnti di filosofia, conne nascono, come si diffondono, perché nella diffusione se­guono certe linee di frattura e certe direzioni ecc. Cid mo­stra quanto sia necessario sistemare criticamente e coe­rentemente le proprie intuizioni del mondo e della vita, fissando con esattezza coca deve intendersi per «sistema» perché non sia capito nel senso pedantesco e professora­le della parola. Ma questa elaborazione deve essere e può solo essere fatta nel quadro della storia della filosofia che mostra quale elaborazione il pensiero abbia subito nel cor­so dei secoli e quale sforzo collettivo sia costato il nostro attuale modo di pensare che riassume e compendia tutta questa storia passata, anche nei suoi errori e nei suoi delirii d'altronde, per essere stati commessi nel passa­to ed essere stati corretti non è detto non si riproducano nel presente e non domandino di essere ancora corretti.

Quale è l'idea che il popolo si fa della filosofia? Si può ricostruire attraverso i modi di dire del linguaggio comune. Uno dei pué diffusi è quello di «prendere le cose con filosofia», che, analizzato, non è poi da buttar via del tutto. E vero che in esso è contenuto un invito implicito al­la rassegnazione e alla pazienza, ma pare che il punto piú importante sia invece l'invito alla riflessione, a rendersi conto e ragione che ciò che succede è in fondo razionale e che come tale occorre affrontarlo, concentrando le proprie forze razionali e non lasciandosi trascinare dagli impulsi istintivi e violenti. Si potrebbero raggruppare questi mo­di di dire popolari con le espressioni simili degli scrittori di carattere popolare — prendendole dai grandi vocabola­ri — in cui entrano i termini di «filosofia» e « filosofica­mente» e si potrà vedere che questi hanno un significato molto preciso, di superamento delle passioni bestiali ed elementari in una concezione della necessità che dà al pro­prio operare una direzione consapevole. E questo il nucleo sano del senso comune, ciòche appunto potrebbe chia­marsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente. Così appare che anche perciònon è possibile disgiungere quella che si chiama filosofia «scien­tifica» da quella filosofia «volgare» e popolare che è solo un insieme disgregato di idee e opinioni.

Ma a questo punto si pone il problema fondamentale di ogni concezione del mondo, di ogni filosofia che sia di­ventata un movimento culturale, una «religione», una « fe­de », cioè che abbia prodotto un'attività pratica e una vo­lontà e in esse sia contenuta come «premessa» teorica im­plicite (una «ideologia» si potrebbe dire, se al termine ideologia si dà appunto il significato più alto di una con­cezione del mondo che si manifesta implicitamente nel­l'arte, nel diritto, nell'attività economica, in tutte le ma­nifestazioni di vita individuali e collettive), cioè il problema di conservare l'unità ideologica in tutto il blocco so­ciale che appunto da quella determinata ideologia è ce­mentato e unificato. La forza delle religioni e specialmen­te della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciòche esse sentono energicamente la necessità dell'unione dot­trinale di tutta la massa «religiosa» e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quel­li La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che «ufficialmente» si formino due religioni, quella degli «intellettuali» e quella delle «anime semplici». Questa lotta non è stata senza gravi in­convenienti per la chiesa stessa, ma questi inconvenienti sono connessi al processo storico che trasforma tutta la società civile e che in blocco contiene una critica corrosi­va delle religioni; tanto piú risalta la capacità organizza­trice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrat­tamente razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra intellettuali e semplici. I gesuiti so­no stati indubbiamente i maggiori artefici di questo equi­librio e per conservarlo essi hanno impresso alla chiesa un movimento progressivo che tende a dare certe soddisf a­zioni aile esigenze della scienza e della filosofia, ma con ritmo cosi lento e metodico che le mutazioni non sono per­cepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano « ri­voluzionarie » e demagogiche agli «integralisti».

Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanen­tistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i «sem­plici» e gli intellettuali. Nella storia della civiltà occiden­tale il fatto si è verificato su scala europea, col fallimento immediato del Rinascimento e in parte anche della Rifor­ma nei confronti della chiesa romana. Questa debolezza si manifesta nella quistione scolastica, in quanto dalle fi­losofie immanentistiche non è stato neppur tentato di co­struire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, quindi il sofisma pseudostorici­stico per cui pedagogisti areligiosi (aconfessionali), e in realtà atei, concedono l'insegnamento della religione per­ché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. L'idealismo si è anche mostrato avverso ai movimenti culturali di «andata verso il popolo», che si manifestarono nelle cosi det­te Università popolari e istituzioni simili e non solo per i loro aspetti deteriori, perché in tal caso avrebbero solo do­vuto cercare di far meglio. Tuttavia questi movimenti era­no degni di interesse, e meritavano di essere studiati: essi ebbero fortuna, nel senso che dimostrarono da parte dei «semplici» un entusiasmo sincero e una forte volontà di innalzarsi a una superiore forma di cultura e di concezio­ne del mondo. Mancava perè in essi ogni organicità sia di pensiero filosofico, sia di saldezza organizzativa e di cen­tralizzazione culturale; si aveva l'impressione che rasso­migliassero ai primi contatti tra i mercanti inglesi e i ne­gri dell'Africa: si dava merce di paccottiglia per avere pe­pite d'oro. D'altronde l'organicità di pensiero e la saldezza culturale poteva aversi solo se tra gli intellettuali e i sem­plici ci fosse stata la stessa unità che deve esserci tra teo­ria e pratica; se cioè gli intellettuali fossero stati organica­mente gli intellettuali di quelle masse, se avessero cioè ela­borato e reso coerenti i principî e i problemi che quelle masse ponevano con la loro attività pratica, costituendo cosi un blocco culturale e sociale. Si ripresentava la stes­sa quistione già accennata: un movimento filosofico è ta­le solo in quanto si applica a svolgere una cultura specia­lizzata per ristretti gruppi di intellettuali o è invece tale solo in quanto, nel lavoro di elaborazione di un pensiero superiore al senso comune e scientificamente coerente, non dimentica mai di rimanere a contatto coi «semplici» e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere ? Solo per questo contatto una filo­sofia diventa «storica», si depura dagli elementi intellet­tualistici di natura individuale e si fa «vita».

(Forse è utile «praticamente» distinguere la filosofia dal senso comune per meglio indicare il passaggio dall'u­no all'altro momento: nella filosofia sono specialmente spiccati i caratteri di elaborazione individuale del pensie­ro, nel senso comune invece i caratteri diffusi e dispersi di un pensiero generico di una certa epoca in un certo ambiente popolare. Ma ogni filosofia tende a diventare sen­so comune di un ambiente anche ristretto — di tutti gli in­tellettuali. Si tratta pertanto di elaborare una filosofia che avendo già una diffusione, o diffusività, perché connessa alla vita pratica e implicita in essa, diventi un rinnovato senso comune con la coerenza e il nerbo delle filosofie in­dividuali: ciònon può avvenire se non è sempre sentita l'esigenza del contatto culturale coi «semplici»).

Una filosofia della prassi non può che presentarsi ini­zialmente in atteggiamento polemico e critico, come su­peramento del modo di pensare precedente e del concre­to pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quin­di innanzi tutto come critica del «senso comune» (dopo esserci basata sul senso comune per dimostrare che « tut­ti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di «tutti», ma di inno­vare e rendere «critica» un'attività già esistente) e quin­di della filosofia degli intellettuali, che ha dato luogo alla storia della filosofia e che, in quanto individuale (e si svi­luppa infatti essenzialmente nell'attività di singoli indivi­dui particolarmente dotati), può considerarsi come le «punte» di progresso del senso comune, per lo meno del senso comune degli strati piú colti della società, e attra­verso questi anche del senso comune popolare. Ecco quin­di che un avviamento allo studio della filosofia deve espor­re sinteticamente i problemi nati nel processo di sviluppo della cultura generale, che si riflette solo parzialmente nel­la storia della filosofia, che tuttavia, in assenza di una sto­ria del senso comune (impossibile a costruirsi per l'assen­za di materiale documentario) rimane la fonte massima di riferimento per criticarli, dimostrarne il valore reale (se ancora l'hanno) o il significato che hanno avuto come anel­li superati di una catena e fissare i problemi nuovi attua­li o l'impostazione attuale dei vecchi problemi.

Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica», cosi come è assicurato dalla po­litica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello dei «semplici». Le differenze nei due casi sono perè fondamentali. Che la chiesa debba affrontare un proble ma dei «semplici» significa appunto che c'è stata rottura nella comunità dei «fedeli», rottura che non può essere sanata innalzando i «semplici» al livello degli intellettua­li (la chiesa non si propone neppure questo compito, ideal­mente ed economicamente impari aile sue forze attuali), ma con una disciplina di ferro sugli intellettuali perché non oltrepassino certi limiti nella distinzione e non la ren­dano catastrofica e irreparabile. Nel passato queste «rot­ture» nella comunità dei fedeli erano sanate da forti mo­vimenti di massa che determinavano o erano riassunti nel­la formazione di nuovi ordini religiosi intorno a forti personalità (Domenico, Francesco). (I movimenti eretica­li del Medio Evo come reazione simultanea al politicanti­smo della chiesa e alla filosofia scolastica che ne fu una espressione, sulla base dei conflitti sociali determinati dal­la nascita dei Comuni, sono stati una rottura tra massa e intellettuali nella chiesa «rimarginata» dalla nascita di mo­vimenti popolari religiosi riassorbiti dalla chiesa nella for­mazione degli ordini mendicanti e in una nuova unità re­ligiosa). Ma la Controriforma ha isterilito questo pullula­re di forze popolari: la Compagnia di Gesti è l'ultimo grande ordine religioso, di origine reazionario e autorita­rio, con carattere repressivo e « diplomatico», che ha se­gnato, con la sua nascita, l'irrigidimento dell'organismo cattolico. I nuovi ordini sorti dopo hanno scarsissimo si­gnificato «religioso» e un grande significato « disciplina­re» sulla massa dei fedeli, sono ramificazioni e tentacoli della Compagnia di Gesti o ne sono diventati tali, stru­menti di «resistenza» per conservare le posizioni politi­che acquisite, non forze rinnovatrici di sviluppo. Il catto­licismo è diventato «gesuitismo». Il modernismo non ha creato «ordini religiosi» ma un partito politico, la demo­crazia cristiana. (Ricordare l'aneddoto, raccontato dallo Steed nelle sue Memorie, del cardinale che al protestante inglese filocattolico spiega che i miracoli di san Gennaro sono utili2 per il popolino napoletano, non per gli intellet­tuali, che anche nell'Evangelo ci sono delle « esagerazio­ni» e alla domanda: «ma non siamo cristiani ?», risponde «noi siamo prelati», cioè «politici» della Chiesa di Roma). La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a man­tenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del sen­so comune, ma invece a condurli a una concezione supe­riore della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra in­tellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale- che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali.

L'uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pu­re è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contra­sto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due co­scienza teoriche (o una coscienza contraddittoria), una im­plicite nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha eredita­to dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione «verbale» non è senza conseguenze: essa rian­noda a un gruppo sociale determinato, influisce nella con­dotta , nell'indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività e politica. La comprensione cri­tica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di «ege­monie» politiche, di direzioni contrastanti, prima nel cam­po dell'etica, poi della politica, per giungere a una elabo­razione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemo­nica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una ul­teriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l'unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un di venire storico che ha la sua fase element are e primitiva nel sen­so di «distinzione», di « dist acco », di indipendenza appe­na istintivo, e progredisce fino al possesso reale e comple to di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ec­co perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politi­co del concetto di egemonia rappresenta un grande pro­gresso filosofico oltre che politico-pratico, perché neces­sariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha su­perato il senso comune ed è diventata, sia pure entré li­miti ancora ristretti, critica.

Tuttavia, nei piú recenti sviluppi della filosofia della praxis, l'approfondimento del concetto di unità della teo­ria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: rimangono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria conne «complemento», «accessorio» della pratica, di teoria come ancella della pratica. Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata stori­camente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali. Autocoscienza critica significa storica­mente e politicamente creazione di una élite di intellet­tuali: una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé» senza organizzarsi (in senso lato) e non c'è organizzazione senza intellettuali, cioè senza or­ganizzatori e dirigenti, cioè senza che l'aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone « specializzate» nell'elaborazione con­cettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione de­gli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e di ritirate, di sbandamenti e di riaggruppa­menti, in cui la «fedeltà» della massa (e la fedeltà e la di­sciplina sono inizialmente la forma che assume l'adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell'inte­ro fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettua­li-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantita­tivamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intel­lettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con ponte individuali o anche di gruppi piú o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel pro­cesso perè si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l'impressione di «accessorio», di complementare, di su­bordinato. L'insistere sull'elemento «pratico» del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato e non solo di­stinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora eco­nomico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamen­te il quadro generale della «struttura» e la qualità-super­struttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora or­ganicamente formata. E da porre in rilievo l'importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell'elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente elaborano l'etica e la po­litica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «speri­mentatori» storici di esse concezioni. I partiti seleziona­no individualmente la massa operante e la selezione av­viene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente, con un rapporto tanto pid stretto tra teo­ria e pratica quanto più la concezione è vitalmente e radi­calmente innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare. Perciòsi pué dire che i partiti sono gli elabora­tori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il crogiolo dell'unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale e si capisce come sia necessaria la formazione per adesione individuale e non del tipo « la­burista» perché, se si tratta di dirigere organicamente «tutta la massa economicamente attiva» si tratta di diri­gerba non secondo vecchi schemi ma innovando, e l'inno­vazione non pué diventare di massa, nei suoi priori stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezione im­plicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale coerente e sistematica e volontà precisa e decisa. Una di queste fasi si pué studiare nella discussione attraverso la quale si sono verificati i pila re centi sviluppi della filosofia della praxis, discussione riassunta in un articolo di D.S. Mirskij, collaboratore della «Cultura». Si può vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di pin, come si è osservato, a una giusta comprensione dell'unità di teo­ria e pratica, sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico.

Si può osservare come l'elemento deterministico, fata­listico, meccanicistico sia stato un «aroma» ideologico im­mediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa neces­saria e giustificata storicamente dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali. Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificar­si con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza , di coe­sione, di perseveranza paziente e ostinata. «Io sono scon­fitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc. ». La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della prov­videnza ecc., delle religioni confessionali. Occorre insiste­re sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una for­te attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza del­le cose» ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddi­toria, manca di unità critica ecc. Ma quando il «subalter­no» diventa dirigente e responsabile dell'attività economi­ca di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il mo­do di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere. I limiti e il dominio della «forza delle co­se» vengono ristretti perché ? Perché, in fondo, se il subal­terno era ieri una cosa, oggi non è pin una cosa ma una per­sona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile per­ché «resistente» a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente. Ma anche ieri era egli mai stato mera «resistenza», mera «cosa», mera «ir­responsabilità»? Certamente no, ed è anzi da porre in ri­lievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da de­boli di una volontà attiva e reale. Ecco perché occorre sem­pre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e in quanto solo tale elemento intrinseco di forza, quando viene assun­to a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettua­li, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciòsenza aspettare che il subalterno sia diventato diri­gente e responsabile. Una parte della massa anche subal­terna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale.

Che la concezione meccanicistica sia stata una religio­ne di subalterni appare da un'analisi dello sviluppo della religione cristiana, che in un certo periodo storico e in con­dizioni storiche determinate è stata e continua ad essere una «necessità», una forma necessaria della volontà delle masse popolari, una forma determinata di razionalità del mondo e della vita e dette i quadri generali per l'attività pratica reale. In questo brano di un articolo della «Civiltà C attolica » (Individualismo pagano e individualismo cristia­no, fasc. del 5 marzo 1932) mi pare bene espressa questa funzione del cristianesimo: «La fede in un sicuro avveni­re, nell'immortalità dell'anima, destinata alla beatitudine, nella sicurezza di poter arrivare al godimento eterno, fu la molla di propulsione per un lavoro di intensa perfezio­ne interna, e di elevazione spirituale. Il vero individuali­smo cristiano ha trovato qui l'impulso alle sue vittorie. Tutte le forze del cristiano furono raccolte intorno a que­sto fine nobile. Liberato dalle fluttazioni speculative che snervano l'anima nel dubbio, e illuminato da principî im­mortali, l'uomo senti rinascere le speranze; sicuro che una forza superiore lo sorreggeva nella lotta contro il male, egli fece violenza a se stesso e vinse il mondo». Ma anche in questo caso, è il cristianesimo ingenuo che si intende; non il cristianesimo gesuitizzato, divenuto un puro narcotico per le masse popolari.

Ma la posizione del calvinismo, con la sua concezione ferrea della predestinazione e della grazia, che détermina una vasta espansione di spirito di iniziativa (o diventa la forma di questo movimento) è ancora più espressiva e si­gnificativa. (A questo proposito si puô vedere: Max We­ber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, pubbli­cato nei «Nuovi Studi», fascicoli dal 1931 e sgg., e il li­bro del Groethuysen sulle origini religiose della borghesia in Francia).

Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo ? In questo processo di dif­fusione (che è nello spesso tempo di sostituzione del vec­chio e molto spesso di combinazione tra il nuovo e il vec­chio) influiscono, e come e in che misura, la forma razio­nale in cui la nuova concezione è esposta e presentata, l'autorità (in quanto sia riconosciuta ed apprezzata alme­no genericamente) dell'espositore e dei pensatori e scien­ziati che l'espositore chiama in suo sostegno, l'appartene­re alla stessa organizzazione di chi sostiene la nuova con­cezione (dopo perè essere entrati nell'organizzazione per altro motivo che non sia il condividere la nuova concezio­ne) ? Questi elementi in realtà variano a seconda del grup­po sociale e del livello culturale del gruppo dato. Ma la ri­cerca interessa specialmente per ciòche riguarda le mas­se popolari, che più difficilmente mutano di concezione, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma «pura», per dir cosi, ma solo e sempre come com­binazione piú o meno eteroclita e bizzarra. La forma ra­zionale, logicamente coerente, la completezza del ragio­namento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall'essere decisiva; essa pué essere decisiva in via subordinata, quando la persona data è già in condi­zioni di crisi intellettuale, ondeggia tra il vecchio e il nuo­vo, ha perduto la fede nel vecchio e ancora non si è deci­sa per il nuovo ecc. Cosi si pué dire per l'autorità dei pen­satori e scienziati. Essa è molto grande nel popolo, ma di fatto ogni concezione ha i suoi pensatori e scienziati da porre innanzi e l'autorità è divisa; inoltre è possibile per ogni pensatore distinguere, porre in dubbio che abbia pro­prio detto in tal modo ecc. Si pué concludere che il pro­cesso di diffusione delle concezioni nuove avviene per ra­gioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma che l'e­lemento formale, della logica coerenza, l'elemento autoritativo e l'elemento organizzativo hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l'o­rientamento generale è avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi. Da ciòsi conclude perè che nel­le masse in quanto tali la filosofia non pué essere vissuta che come una fede. Si immagini del resto la posizione in­tellettuale di un uomo del popolo; egli si è formato delle opinioni, delle convinzioni, dei criteri di discriminazione e delle norme di condotta. Ogni sostenitore di un punto di vista contrastante al suo, in quanto è intellettualmen­te superiore, sa argomentare le sue ragioni meglio di lui, lo mette in sacco logicamente ecc.; dovrebbe perché l'uo­mo del popolo mutare le sue convinzioni? Perché nell'im­mediata discussione non sa farsi valere ? Ma allora gli po­trebbe capitare di dover mutare una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellet­tualmente superiore. Su quali elementi si fonda dunque la sua filosofia? E specialmente la sua filosofia nella for­ma che per lui ha maggiore importanza di norma di con­dotta? L'elemento più importante è indubbiamente di ca­rattere non razionale, di fede. Ma in chi e che cosa ? Spe­cialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui: l'uomo del popolo pensa che in tanti non si pué sbagliare, cosi in tronco, come l'av­versario argomentatore vorrebbe far credere; che egli stes­so, è vero, non è capace di sostenere e svolgere le proprie ragioni come l'avversario le sue, ma che nel suo gruppo c'è chi questo saprebbe fare, certo anche meglio di quel determinato avversario ed egli ricorda infatti di aver sen­tito esporre diffusamente, coerentemente, in modo che egli ne è rimasto convinto, le ragioni della sua fede. Non ricorda le ragioni in concreto e non saprebbe ripeterle, ma sa che esistono perché le ha sentite esporre e ne è rimasto convinto. L'essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della con­vinzione, anche se essa non si sa piti argomentare.

Ma queste considerazioni conducono alla conclusione di una estrema labilità nelle convinzioni nuove delle mas­se popolari, specialmente se queste nuove convinzioni so­no in contrasto con le convinzioni (anche nuove) ortodos­se, sodalmente conformiste secondo gli interessi generali delle classi dominanti. Si può vedere questo riflettendo alle fortune delle religioni e delle chiese. La religione, e una determinata chiesa, mantiene la sua comunità di fe­deli (entro certi limiti, delle necessità dello sviluppo sto­rico generale) nella misura in cui intrattiene permanentemente e organizzatamente la fede propria, ripetendone l'apologetica indefessamente, lottando in ogni momento e sempre con argomenti simili, e mantenendo una gerar­chia di intellettuali che alla fede diano almeno l'apparen­ta della dignità del pensiero. Ogni volta che la continuità dei rapporti tra chiesa e fedeli è stata interrotta violentemente, per ragioni politiche, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, le perdite subite dalla chiesa sono state incalcolabili e se le condizioni di difficile esercizio delle pratiche abitudinarie si fossero protratte oltre certi limiti di tempo, è da pensare che tali perdite sarebbero state definitive e una nuova religione sarebbe sorta, come del resto in Francia è sorta in combinazione col vec­chio cattolicismo. Se ne deducono determinate necessità per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il sen­so comune e le vecchie concezioni del mondo in genera­le: 1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare; 2) di lavorare incessantemente per elevare in­tellettualmente sempre piú vasti strati popolari, cioè per dare personalità all'amorfo elemento di massa, ciô che si­gnifica di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur ri­manendo a contatto con essa per diventarne le «stecche» del busto. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il «panorama ideologico» di un'epoca. Né, d'altronde, queste élites possono costituir­si e svolgersi senza che nel loro interno si verifichi una ge­rarchizzazione di autorità e di competenza intellettuale, che può culminare in un grande filosofo individuale, se questo è capace di rivivere concretamente le esigenze del­la massiccia comunità ideologica, di comprendere che essa non può avere la snellezza di movimento propria di un cervello individuale e pertanto riesce a elaborare formalmente la dottrina collettiva nel modo piti aderente e ade­guato ai modi di pensare di un pensatore collettivo.

E evidente che una costruzione di massa di tal genere non può avvenire « arbitrariamente», intorno a una qual­siasi ideologia, per la volontà formalmente costruttiva di una personalità o di un gruppo che se lo proponga per f a­natismo delle proprie convinzioni filosofiche o religiose. L'adesione di massa a una ideologia o la non adesione è il modo con cui si verifica la critica reale della razionalità e storicità dei modi di pensare. Le costruzioni arbitrarie so­no più o meno rapidamente eliminate dalla competizione storica, anche se talvolta, per una combinazione di circo­stanze immediate favorevoli, riescono a godere di una tal quale popolarità, mentre le costruzioni che corrispondo­no alle esigenze di un periodo storico complesso e organi­co finiscono sempre con l'imporsi e prevalere anche se at­traversano moite fasi intermedie in cui il loro affermarsi avviene solo in combinazioni piú o meno bizzarre ed ete­roclite.

Questi svolgimenti pongono molti problemi, i piú im­portanti dei quali si riassumono nel modo e nella qualità dei rapporti tra i vari strati intellettualmente qualificati, cioè nell'importanza e nella funzione che deve e può ave­re l'apporto creativo dei gruppi superiori in connessione con la capacità organica di discussione e di svolgimento di nuovi concetti critici da parte degli strati subordinati intellettualmente. Si tratta cioè di fissare i limiti della li­bertà di discussione e di propaganda, libertà che non de­ve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di autolimite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamen­te fissati ? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuo­ve verità e di migliori, piú coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all'iniziativa libera dei sin­goli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principî che paiono i piú essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pen­sare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordi­nate, in modo che esse passino attraverso il crivello di ac­cademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo es­sere state selezionate diventino pubbliche ecc.

Sarebbe interessante studiare in concreto, per un sin­golo paese, l'organizzazione culturale che tiene in movi­mento il mondo ideologico ed esaminarne il funzionamen­to pratico. Uno studio del rapporto numerico tra il perso­nale che professionalmente è dedito al lavoro attivo culturale e la popolazione dei singoli paesi sarebbe anche utile, con approssimativo calcolo delle forze libere. La scuola, in tutti i suoi gradi, e la chiesa sono le due mag­giori organizzazioni culturali in ogni paese, per il numero del personale che occupano. I giornali, le riviste, e l'atti­vità libraria, le istituzioni scolastiche private, sia in quan­to integrano la scuola di Stato, sia come istituzioni di cul­tura del tipo Università popolare. Altre professioni incor­porano nella loro attività specializzata una frazione culturale non indifferente, come quella dei medici, degli ufficiali dell'esercito, della magistratura. Ma è da notare che in tutti i paesi, sia pure in misura diversa, esiste una grande frattura tra le masse popolari e i gruppi intellet­tuali, anche quelli piú numerosi e piú vicini alla periferia nazionale, come i maestri e i preti. E che ciòavviene per­ché, anche dove i governanti ciô affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coeren­te e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgre­gati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato. L'u­niversità, eccetto che in alcuni paesi, non esercita nessu­na funzione unificatrice; spesso un pensatore libero ha più influsso di tutta la istituzione universitaria ecc.

Extrait des Quaderni del carcere – quaderno 11 (1932-1933) – volume secondo, pp.1375-1394 – edizione Gerratana – Einaudi, 1975-2007 


 

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Traduction française

Introduction à l’étude de la philosophie

Quelques points de référence préliminaires

Il faut détruire le préjugé très diffusé selon lequel la philosophie est quelque chose de très difficile du fait qu’elle est l’activité intellectuelle propre à une catégorie déterminée de scientifiques spécialisés ou de philosophes professionnels et systématiques. Il faut, partant, démontrer au préalable que tous les hommes sont « philosophes », en définissant les limites et les caractères de cette « philosophie spontanée », propre à « tout le monde », c’est-à-dire de la philosophie qui est contenue, 1) dans le langage lui-même, qui est un ensemble de concepts et de notions déterminés et non déjà et seulement des paroles grammaticalement vides de contenu ; 2) dans le sens commun et le bon sens ; 3) dans la religion populaire et même, par conséquent, dans tout système de croyances, de superstitions, d’opinions, de manières de voir et d’opérer qui se présentent dans ce que l’on appelle généralement le folklore.

Ayant démontré que tous les hommes sont philosophes, même si à leur manière, incon­sciemment, parce que même seulement dans la manifestation minimale d’une quelconque activité intellectuelle, le « langage », est contenue une conception du monde déterminée, on passe au second moment, le moment de la critique et de la conscience, c’est-à-dire à la question : est-il préférable de penser sans en avoir la conscience critique, sur un mode désorganisé et occasionnel, c’est-à-dire de participer à une conception du monde « imposée » mécaniquement par le milieu environnant, et donc par l’un des innombrables groupes sociaux dans lesquels chacun est automatiquement inséré depuis son entrée dans le monde conscient (et qui peut être son village, sa province, qui peut avoir son origine dans la paroisse et dans l’activité intellectuelle du curé ou du vieux patriarche dont la « sagesse » dicte la loi, dans la bonne femme qui a hérité de la sapience des sorcières ou dans le petit intellectuel aigri dans sa propre stupidité et sa propre impuissance à agir) ou est-il préférable d’élaborer sa propre conception consciemment et de manière critique et par conséquent, en connexion avec un tel travail de son propre cerveau, de choisir sa propre sphère d’activité, de participer activement à la production de l’histoire du monde, d’être le guide de soi-même et de ne pas accepter passivement et les mains tendues l’empreinte de l’extérieur.

Note I. Par sa propre conception du monde, on appartient toujours à un regroupement déterminé, précisément à celui de tous les éléments sociaux qui partagent une même manière de penser et d’agir. On est toujours les conformistes d’un certain conformisme, on est toujours des hommes-masse ou des hommes collectifs. La question est celle-ci : de quel type historique est le conformisme, l’homme-masse dont on fait partie ? Quand la conception du monde n’est pas critique et cohérente mais occasionnelle et désorganisée, on appartient simultanément à une multiplicité de personnalités et sa propre personnalité est composée de manière bizarre : on trouve en elle des éléments de l’homme des cavernes et des principes de la science moderne et avancée, des préjugés de toutes les phases historiques passées étroitement bornés sur un plan local et l’intuition d’une philosophie de l’avenir qui sera proprement celle du genre humain unifié mondialement. Critiquer sa propre conception du monde signifie donc la rendre unitaire et cohérente et l’élever jusqu’au point qu’a atteint la pensée mondiale la plus avancée. Cela signifie donc critiquer toute la philosophie existante jusqu’à maintenant, en tant qu’elle a laissé des stratifications consolidées dans la philosophie populaire. Le commencement de l’élaboration critique est la conscience de ce qui est réellement, c’est-à-dire un « connais-toi toi-même » comme produit du processus historique qui s’est développé jusqu’à maintenant et qui a laissé en toi-même une infinité de traces recueillies sans bénéfice d’inventaire. Il faut faire initialement un tel inventaire.

Note II : On ne peut pas séparer la philosophie de l’histoire de la philosophie ni la culture de l’histoire de la culture. Dans le sens le plus immédiat et le plus strict, on ne peut pas être philosophe, c’est-à-dire avoir une conception critique et cohérente du monde, sans la conscience de son historicité, de la phase historique qu’elle représente et du fait qu’elle est en opposition avec d’autres conceptions ou avec des éléments d’autres conceptions. Sa propre conception du monde répond à des problèmes déterminés posés par la réalité, qui sont bien déterminés et « originaux » dans leur actualité. Comment est-il possible de penser le présent et un présent bien déterminé avec une pensée élaborée pour les problèmes du passé souvent bien éloigné et dépassé ? Si ceci advient,  cela signifie qu’on est « anachronique » dans son propre temps, qu’on est des fossiles et non des êtres vivants de façon moderne. Ou, pour le moins, qu’on est composé bizarrement. Et en fait, il advient que des groupes sociaux qui, par certains aspects, expriment la modernité la plus développée, par d’autres sont en retrait avec leur position sociale et partant son incapables d’une complète autonomie historique.

Note III : S’il est vrai que tout langage contient les éléments d’une conception du monde et d’une culture, il sera vrai aussi que du langage de chacun on peut juger la plus grande ou la moins grande complexité de sa conception du monde. Qui parle seulement le dialecte ou comprend la lange nationale à des degrés différents, participe nécessairement d’une intuition du monde plus ou moins restreinte et provinciale, fossilisée, anachronique face aux grands courants de pensée qui dominent l’histoire mondiale. Ses intérêts seront restreints, plus ou moins corporatifs et économistes, non universels. S’il n’est pas toujours possible d’apprendre plus de langues étrangères pour se mettre au contact de vies culturelles différentes, il est nécessaire, au moins, d’apprendre bien sa langue nationale. Une grande culture peut se traduire dans la langue d’une autre grande culture, c’est-à-dire qu’une grande langue nationale, historiquement riche et complexe peut traduire tout autre grande culture, c’est-à-dire être une expression mondiale. Mais un dialecte ne peut faire la même chose.

Note IV : Créer une nouvelle culture ne signifie pas seulement faire individuellement des découvertes « originales », cela signifie aussi et spécialement diffuser de manière critique des vérités déjà découvertes, les « socialiser » pour ainsi dire et, partant les faire devenir des bases d’actions vitales, élément de coordination et d’ordre intellectuel et moral. Qu’une masse d’hommes soit conduite à penser de manière cohérente et unitaire est un fait « philosophique » bien plus important et « original » que ne le serait la découverte d’une vérité nouvelle qui resterait le patrimoine de petits groupes intellectuels.

Connexion entre le sens commun, la religion et la philosophie. La philosophie est un ordre intellectuel, ce que ne peuvent être ni la religion ni le sens commun. Voir comment dans la réalité ni la religion ni le sens commun ne coïncident, mais la religion est un élément de ce sens commun désorganisé. Du reste « sens commun » est un nom collectif, comme « religion » : il n’existe pas un seul sens commun qui, lui aussi, est un produit du devenir historique. La philosophie est la critique et le dépassement de la religion et du sens commun et, en ce sens, elle coïncide avec le « bon sens » qui s’oppose au sens commun.

Relations entre science – religion – sens commun. La religion et le sens commun ne peuvent constituer un ordre intellectuel parce qu’ils ne peuvent se réduire à une unité et une cohérence même dans la conscience individuelle pour ne rien dire de la conscience collective : ils ne peuvent se réduire à l’unité et à la cohérence « librement » parce que « autoritairement » cela pourrait arriver comme, de fait, c’est déjà arrivé dans le passé à l’intérieur de certaines limites. Le problème de la religion entendu non dans le sens confessionnel mais dans le sens laïque d’unité de foi entre une conception du monde et une norme de conduite conformes ; mais pourquoi appeler cette unité de foi « religion » et non l’appeler « idéologie » ou réellement « politique » ?

De fait, la philosophie en général n’existe pas : existent différentes philosophies ou conceptions du monde et on fait toujours un choix entre elles. comment ce choix se fait-il ? Et ce choix est-il un fait purement intellectuel ou plus complexe ? Et n’advient-il pas souvent qu’entre le fait intellectuel et la norme de conduite il y ait contradiction ? Quelle sera alors la conception du monde réelle, celle qui est affirmée comme fait intellectuel ou celle qui résulte de l’activité réelle de chacun, qui est impliquée dans son agir ? Et puisque l’agir est toujours un agir politique, ne peut-on pas dire que la philosophie réelle de chacun est contenue tout entière dans sa politique ? Ce contraste entre le penser et l’agir, c’est-à-dire la coexistence de deux conceptions du monde, l’une affirmée en paroles et l’autre s’expliquant dans l’agir effectif, n’est pas toujours due à la mauvaise foi. La mauvaise foi peut être une explication satisfaisante pour quelques individus pris singulièrement ou même pour des groupes plus ou moins nombreux, mais elle n’est pas satisfaisante quand le contraste se vérifie dans les manifestations vitales des larges masses : alors celui-ci ne peut pas ne pas être l’expression de contrastes profonds d’ordre historique-social. Il signifie qu’un groupe social qui a sa propre conception du monde, même embryonnaire, qui se manifeste dans l’action, et donc de temps en temps, occasionnellement, c’est-à-dire quand un tel groupe se meut organiquement, il a, pour des raisons de soumission et de subordination intellectuelle, pris une conception qui n’est pas la sienne auprès d’un autre groupe, et cette conception est affirmée en paroles et elle est suivie en acte, parce qu’il la suit en « temps normal », c’est-à-dire quand sa conduite n’est pas indépendante et autonome, mais précisément soumise et subordonnée. Voici donc qu’on ne peut séparer la philosophie de la politique et on peut au contraire montrer que le choix et la critique d’une conception du monde est aussi un fait politique.

Il faut donc expliquer comment il se fait que dans chaque époque coexistent de nombreux systèmes et courants en philosophie, comment ils naissent, comment ils se diffusent, pourquoi dans la diffusion ils suivent certaines lignes de fracture, certaines directions, etc. Ceci montre combien il est important d’ordonner systématiquement de manière critique et cohérente ses propres intuitions du monde et de la vie,  en fixant avec exactitude ce que l’on doit entendre par « système » pour que cela ne soit pas compris dans le sens pédant et professoral du mot. Mais cette élaboration doit être et peut seulement être faite dans le cadre de l’histoire de la philosophie qui montre quelle élaboration la pensée a subie au cours des siècles et quel effort a coûté notre actuel mode de penser qui réassume et englobe toute cette histoire passée, même dans ses erreurs et même dans ses délires, du reste, pour avoir été commis dans le passé et avoir été corrigés et dont il n’est pas dits qu’ils ne se reproduisent pas dans le présent et ne demandent pas encore à être corrigés.

Quelle idée le peuple se fait-il de la philosophie ? On peut la reconstruire à travers les manières de dire du langage commun. Une des plus répandues est « prendre les choses avec philosophie » qui, une fois analysée n’est pas du tout à rejeter. Il est vrai qu’en elle est contenue un invitation implicite à la résignation et à la patience, mais il me semble que le point le plus important soit au contraire l’invitation à la réflexion, à se rendre compte, à se rendre à la raison, que ce qui arrive est au fond rationnel et que comme tel on doit l’affronter, en concentrant ses propres forces rationnelles et en ne se laissant pas tirer par des impulsions instinctives et violentes. On pourrait regrouper ces manières de parler populaires avec les expressions semblables des écrivains de caractère populaire – en les prenants dans les grands dictionnaires – dans lesquelles entrent les termes « philosophie » et « philosophiquement » et on pourrait voir que ceux-ci ont une signification très précise dépassement des passions bestiales élémentaires dans une conception de la nécessité qui donne à sa propre action une direction consciente. Et ceci est le noyau sain du sens commun, ce qui précisément pourrait s’appeler le bon sens et qui mérite d’être développé et rendu unitaire et cohérent. Ainsi il apparaît que pour ceci même il n’est pas possible de disjoindre la philosophie qui se dit « scientifique » de cette philosophie « vulgaire » et populaire qui est seulement un ensemble désagrégé d’idées et d’opinions.

Mais à ce point se pose le problème fondamental de toute conception du monde, de toute philosophie devenue un mouvement culturel, une « religion », une « foi », c’est-à-dire qui ait produit une activité pratique et une volonté et qui est contenu en elle comme « prémisse » théorique implicite (une « idéologie » pourrait-on dire, si on donne au terme idéologie la signification plus élevée d’une conception du monde qui se manifeste implicitement dans l’art, dans le droit, dans l’activité économique, dans toutes les manifestations de la vie intellectuelle et collective), c’est-à-dire le problème de conserver l’unité idéologique dans tout le bloc social qui est précisément cimenté et unifié par cette idéologie déterminée. La force des religions et spécialement de l’église catholique a consisté et consiste en ce que elles ressentent énergiquement la nécessité de l’union doctrinale de toute la masse « religieuse » et luttent pour que les strates intellectuellement supérieures ne se coupent pas des couches inférieures. L’église romaine a toujours été la plus tenace dans la lutte pour empêcher qu’ « officiellement » se forment deux religions, celle des intellectuels et celle des « âmes simples ». Cette lutte n’a pas été sans graves inconvénient pour l’église elle-même, mais ces inconvénients sont liés au processus historique qui transforme toute la société civile et qui, en bloc, contient une critique corrosive des religions ; ressort d’autant plus la capacité organisatrice dans la sphère de la culture du clerc et le rapport abstraitement rationnel que l’église a su établir entre intellectuels et gens simples dans son propre cercle d’influence. Les jésuites ont été indubitablement les principaux artisans de cet équilibre et pour le conserver ils ont imprimé à l’église un mouvement progressif qui tend à donner certaines satisfactions aux exigences de la science et de la philosophie, mais avec un rythme si lent et si méthodique que les mutations ne sont pas perçues par la masse des gens simples, bien qu’elles apparaissent « révolutionnaires » et démagogiques aux « intégristes ».  

Une des faiblesses majeures des philosophies immanentistes en général consiste précisément dans le fait de n’avoir pas su créer une unité entre le bas et le haut, entre les « simples » et les intellectuels. Dans l’histoire de la civilisation occidentale, ce fait s’est vérifié à l’échelle européenne, avec la faillite immédiate de la Renaissance et en partie de la Réforme dans sa confrontation avec l’Église romaine. Cette faiblesse se manifeste dans la question scolaire, dans la mesure où de ces philosophies immanentistes il n’a même pas été tenté de construire une conception qui puisse remplacer la religion dans l’éducation des enfants, donc le sophisme pseudo-historiciste par lequel les pédagogues non religieux (non confessionnels) et en réalité athées dispensent l’enseignement de la religion parce que la religion est la philosophie de l’enfance de l’humanité qui se rénove dans toute enfance prise dans un sens non métaphorique. L’idéalisme s’est aussi montré adversaire des mouvements qui voulaient « aller au peuple », qui se manifestèrent dans ce qu’on a appelé les universités populaires et autres institutions semblables et pas seulement à cause de leurs aspects les plus mauvais, parce que dans ce cas il aurait seulement dû chercher à faire mieux. Toutefois, ces mouvements étaient dignes d’intérêt et méritaient d’être étudiés : ils eurent une certaine fortune dans le sens qu’ils démontrèrent de la part des « simples » un enthousiasme sincère et une forte volonté de s’élever à une forme supérieure de culture et de conceptions du monde. il leur manquait cependant l’organicité tant de la philosophie que de la solidité organisationnelle et de la centralisation culturelle ; on avait l’impression qu’ils ressemblaient aux premiers contacts entre les marchands anglais les nègres d’Afrique : on donnait des marchandises de pacotille pour avoir des pépites d’or. En outre, l’organicité de la pensée et la solidité culturelle, il ne pouvait y en avoir que seulement si entre les intellectuels et les simples il y avait eu la même unité que celle qui doit exister entre théorie et pratique, c’est-à-dire si les intellectuels avaient été organiquement les intellectuels de ces masses, c’est-à-dire s’ils avaient élaboré et rendu cohérents les principes et les problèmes que ces masses posaient dans leur activité pratique, constituant ainsi un bloc culturel et social. Cela représentait la même question que nous avons déjà soulignée : un mouvement philosophique est-il seulement tel qu’en tant qu’il s’applique à développer une culture spécialisée pour un groupe restreint d’intellectuels ou est-il tel au contraire en tant que dans le travail d’élaboration d’une pensée supérieure au sens commun  et scientifiquement cohérente, il n’oublie jamais de rester en contact avec les gens simples et trouve même dans ce contact la source des problèmes à étudier et à résoudre ? Seulement dans ce contact, une philosophie devient « historique » elle s’épure des éléments intellectualistes de nature individuelle et se fait vie.

(Peut-être est-il utile “pratiquement” de distinguer philosophie et sens commun pour mieux indiquer le passage de l’un à l’autre moment : dans la philosophie sont spécialement marqués les caractères d’élaboration individuelle du penser, dans le sens commun, au contraire, les caractères répandus et dispersés d’un penser générique d’une certaine époque et dans un certain milieu populaire. Mais toute philosophie tend à devenir sens commun d’un milieu même très restreint – de tous les intellectuels. Il s’agit, partant, d’élaborer une philosophie qui, ayant déjà une diffusion, ou une certaine diffusivité, parce que liée à la vie pratique et implicite en elle, elle devient un sens commun rénové avec la cohérence et le nerf des philosophies individuelles : ceci ne peut pas arriver si n’est pas toujours entendue l’exigence du contact culturel avec les « gens simples ».

Une philosophie de la praxis ne peut que se présenter initialement dans une attitude  polémique et critique, comme dépassement des modes de penser précédents et de la pensée concrète existante (ou du monde existant). Donc, avant tout comme critique du « sens commun » (après nous être basés sur le sens commun pour démontrer que « tous » sont philosophes et qu’il ne s’agit pas d’introduire ex novo une science dans la vie individuelle de « tous » mais d’innover et de rendre critique une activité déjà existante) et donc de la philosophie des intellectuels qui a donné lieu à l’histoire de la philosophie et qui, en tant qu’individuelle (et elle s’est de fait développée essentiellement dans l’activité d’individus particulièrement doués), peut être considérée comme les pointes de progrès du sens commun, pour le moins du sens commun des strates les plus cultivées de la société et à travers celles-ci aussi du sens commun populaire. Voici donc qu’une orientation vers l’étude de la philosophie doit exposer synthétiquement les problèmes nés du processus de développement de la culture en général, qui se reflète seulement partiellement dans l’histoire de la philosophie, qui toutefois, en l’absence d’une histoire du sens commun (impossible à construire à cause de l’absence de matériel documentaire) reste la source la plus grande de référence pour les critiquer, en démontrer la valeur réelle (s’ils en ont encore) ou la signification qu’ils ont eu comme anneaux dépassés d’une chaîne, et pour fixer les problèmes nouveaux actuels ou le fondement actuel des anciens problèmes.

Le rapport entre philosophie “supérieure” et sens commun est assuré par la « politique », tout comme est assuré par la politique le rapport entre le catholicisme des intellectuels et celui des « simples ». Les différences dans les deux cas sont cependant fondamentales. Que l’église doive affronter un problème des « simples » signifie justement qu’il y a eu une rupture au sein de la des « fidèles », rupture qui ne peut pas être cicatrisée en élevant les simples au niveau des intellectuels (l’église ne se propose même pas cette tâche idéalement et économiquement au-dessus de ses forces actuelles), mais avec une discipline de fer sur les intellectuels pour qu’ils n’outrepassent pas certaines limites dans la distinction et ne la rendent pas catastrophique et irréparable. Dans le passé, ces « ruptures » dans la des fidèles étaient réparées par de forts mouvements de masse qui avaient déterminé et étaient résumés dans la formation de nouveaux ordres religieux autour de fortes personnalités (Dominique, François). (Les mouvements hérétiques du Moyen âge comme réaction à la politisation de l’église autant qu’à la philosophie scolastique qui en fut une expression, sur la base des conflits sociaux déterminés par la naissance des Communes, ont été une rupture entre la masse et les intellectuels dans l’église cicatrisée par des mouvements populaires religieux réabsorbés par l’église dans la formation des ordres mendiants et dans une nouvelle unité religieuse). Mais la contre-réforme a stérilisé ce pullulement de de forces populaires : la Compagnie de Jésus est le dernier grand ordre religieux, d’origine réactionnaire et autoritaire, avec un caractère répressif et « diplomatique », qui a signé avec sa naissance la rigidification de l’organisme catholique. Les nouveaux ordres apparus depuis ont très rarement eu une signification « religieuse » et une signification « disciplinaire » sur la masse des fidèles, ils sont des ramifications et des tentacules de la compagnie de Jésus ou sont devenus tels, des instruments de résistance pour conserver les positions politique acquises et non des forces rénovatrices de développement. Le modernisme n’a pas créé d’ordres religieux mais un partie politique, la démocratie chrétienne. (Il faut rappeler l’anecdote, racontée par Steed[1] dans ses mémoires, du cardinal qui racontait au protestant anglais philocatholique que les miracles de San Genaro sont utiles pour le peuple napolitain et non pour les intellectuels, que même dans l’Évangile il y a des « exagérations » et à la question « sommes-nous chrétiens ? » répondait « nous sommes des prélats », c’est-à-dire des « politiques » de l’église de Rome.) La position de la philosophie de la praxis est antithétique à la catholique : la philosophie de la praxis ne tend pas à maintenir les « simples » dans leur philosophie primitive du sens commun, mais, au contraire à les conduire à une conception supérieure de la vie. Si elle affirme l’exigence du contact entre les intellectuels et les simples, ce n’est pas pour limiter l’activité scientifique et maintenir une unité au bas niveau des masses, mais précisément pour construire un bloc intellectuel-moral qui rend politiquement possible un progrès intellectuel de masse et pas seulement de rares groupes intellectuels.

L’homme de masse actif agit pratiquement, mais il n’a pas une claire conscience théorique de son action qui pourtant est une connaissance du monde en tant qu’il le transforme. Sa conscience théorique peut même être historiquement en contraste avec son action. On peut presque dire qu’il a deux consciences théoriques (ou une conscience contradictoire), une implicite dans son agir et qui réellement l’unit à tous ses collaborateurs dans la transformation pratique de la réalité et une superficiellement explicite ou verbale qu’il a héritée du passé et a accueillie sans critique. Toutefois, cette conception verbale n’est pas sans conséquences : elle le lie à un groupe social déterminé, influe sur sa conduite et sur la direction de sa volonté de manière plus ou moins énergique, qui peut atteindre un point où la contradiction interne de la conscience ne permet aucune action, aucune décision, aucun choix et produit un état de passivité et politique. La compréhension critique de soi-même advient donc à travers une lutte des « hégémonies » politiques, des directions contraires, d’abord dans le champ de l’éthique, ensuite de la politique, pour atteindre à une élaboration supérieure de sa propre conception du réel. La conscience d’être une partie d’une force hégémonique déterminée, (c’est-à-dire la conscience politique) est la première phase pour une autoconscience ultérieure et progressive dans laquelle théorie et pratique finalement s’unifient. Même l’unité de la théorie et de la pratique n’est donc pas un donné de fait, mécanique, mais un devenir historique qui a sa phase élémentaire et primitive dans le sens de « distinction », de « distance », d’indépendance presque instinctive et progresse jusqu’à la possession réelle et complète d’une conception du monde cohérente et unitaire. Voilà pourquoi on doit mettre en relief comment le développement politique du concept d’hégémonie représente un grand progrès philosophique en plus d’être politico-pratique parce que nécessairement il englobe et suppose une unité intellectuelle et une éthique conformes à une conception du réel qui a dépassé le sens commun et est devenue, quoiqu’entre des limites restreintes limités et encore restreints.

Toutefois, dans les plus récents développements de la philosophie de la praxis, l’approfondissement du concept d’unité de la théorie et de la pratique n’est encore que dans une phase initiale : restent encore des résidus de mécanisme, puisqu’on parle de théorie comme “complément”, comme “accessoire” de la pratique, de théorie comme servante de la pratique. Il semble juste que cette question soit posée historiquement, c’est-à-dire comme un aspect de la question politique des intellectuels. Autoconscience critique signifie historiquement et politiquement la création d’une élite d’intellectuels : une masse humaine et ne devient indépendante par elle-même sans s’organiser (dans un sens large) et il n’y a pas d’organisation sans intellectuels, c’est-à-dire sans organisateurs et dirigeants, c’est-à-dire sans que l’aspect théorique du lien théorie-pratique se distingue concrètement dans une strate de personnes « spécialisées » dans l’élaboration conceptuelle et philosophique. Mais ce processus de création des intellectuels est long, difficile, plein de contradictions, d’avancées et de reculs, de dislocations et de regroupements, dans lesquels la fidélité de la masse (et la fidélité et la discipline sont initialement la forme qu’assume l’adhésion de la masse et sa collaboration au développement du phénomène culturel tout entier) est soumise parfois à rude épreuve. Le processus de développement est lié à une dialectique intellectuels-masse ; la strate des intellectuels se développe quantitativement, mais chaque avancée vers une nouvelle ampleur et complexité de la strate des intellectuels est liée à un mouvement analogue des simples, qui s’élève vers les niveaux supérieurs de la culture et élargit simultanément son cercle d’influence avec des percées individuelles ou même de groupes plus ou moins importants vers la strate des intellectuels spécialisés. Dans le processus, cependant, se répètent continument des moments où, entre la masse et les intellectuels (ou certains d’entre eux, ou certains groupes de ceux-ci) se forme une distance ou une perte de contact, donc l’impression d’ « accessoire » ou de complémentaire, de subordonné. L’insistance sur l’élément « pratique » du lien théorie-pratique, après avoir scissionné, séparé et pas seulement distingué les deux éléments (opération précisément purement mécanique et conventionnelle) signifie que l’on traverse une phase historique encore relativement primitive, une phase encore économique-corporative, dans laquelle se transforme quantitativement le cadre général de la « structure » et la qualité-superstructure adéquate est en voie de surgir mais n’est pas encore organiquement formée. On doit mettre en relief l’importance et la signification qu’ont, dans le monde moderne, les partis politiques dans l’élaboration et la diffusion des conceptions du monde en tant qu’essentiellement ils élaborent l’éthique et la politique qui leur est conforme, c’est-à-dire qu’ils fonctionnent presque comme des « expérimentateurs » historiques de ces conceptions. Les partis sélectionnent individuellement la masse agissante et la sélection se fait tant dans le champ pratique que dans le champ théorique, conjointement, avec un rapport d’autant plus étroit entre théorie et pratique que la conception est plus vitalement et radicalement innovatrice et antagoniste aux vieux modes de penser. Pour cette raison, on peut dire que les partis sont les élaborateurs de nouvelles intellectualités intégrales et totalitaires (totalisantes ?), c’est-à-dire qu’ils sont le creuset de l’unification de la théorie et de la pratique entendue comme processus historique réel et on comprend comment est nécessaire la formation pour l’adhésion individuelle et non du type « travailliste » parce que, s’il s’agit de diriger organiquement « toute la masse la masse économiquement active », il s’agit de la diriger non selon les vieux schémas mais en innovant et l’innovation ne peut devenir de masse, dans les premiers stades, sinon par le moyen d’une élite dans laquelle la conception implicite dans l’humanité active est déjà devenue dans une certaine mesure conscience effective cohérente et systématique et volonté précise et décidée. Une des ces phases peut s’étudier dans la discussion à travers laquelle se produits les plus récents développements de la philosophie de la praxis, discussion résumée dans un article de D.S. Mirsky, collaborateur de « Cultura ». on peut voir comment est arrivé le passage d’une conception mécanique et purement extérieure à une conception activiste qui s’approche le plus, comme on l’a observé, d’une juste compréhension de l’unité de la théorie et de la pratique, même si on n’en pas encore atteint toute l’unité synthétique.

On peut observer comment l’élément déterministe, fataliste, mécaniste a été un « arôme » idéologique immédiat de la philosophie de la praxis, une forme de religion et d’excitant (mais à la manière des stupéfiants), rendue nécessaire et justifiée historiquement par le caractère « subalterne » de strates sociales déterminées. Quand on n’a pas l’initiative dans la lutte et que la lutte elle-même se finit donc avec l’identification à une série de défaites, le déterminisme mécaniste devient une force formidable de résistance , de cohésion, de persévérance patiente et obstinée. « Moi, je suis battu momentanément, mais la force des choses travaille pour moi à long terme, etc. » La volonté réelle se travestit en acte de foi en une certaine rationalité de l’histoire, en une forme empirique et primitive de finalisme passionné qui apparaît comme un substitut de la prédestination, de la providence, etc., des religions confessionnelles. Il faut insister sur le fait que même dans un tel cas, il existe réellement une forte activité de la volonté,, une intervention directe sur la « force des choses mais précisément dans une forme implicite, voilée, qui a honte d’elle-même et, partant, la conscience est contradictoire, manque d’unité critique, etc.. Mais quand le « subalterne » devient dirigeant et responsable de l’activité économique de masse, le mécanisme apparaît à un certain point comme un péril imminent, advient une révision de tout le mode de penser parce qu’il est arrivé une mutation dans la manière d’être sociale. Les limites et la domination de la « force des choses » sont restreintes, pourquoi ? Parce que, au fond, si le subalterne était hier une chose, aujourd’hui il n’est plus une chose mais une personne historique, un protagoniste, si hier il était irresponsable parce que « résistant » à une volonté étrangère, aujourd’hui il se sent responsable parce qu’il n’est plus résistant mais agent et nécessairement actif et entreprenant. Mais aussi hier, lui, était-il jamais pure « résistance », pure « chose », pure « irresponsabilité » ? Certainement non, et, au contraire, il faut mettre en relief la façon dont le fatalisme n’est que la couverture par les faibles d’une volonté active et réelle. Voilà pourquoi il est nécessaire de toujours démontrer la futilité du déterminisme mécanique, qui, explicable comme philosophie ingénue de la masse et seulement en tant que tel élément intrinsèque de force, quand il est assigné à une philosophie réfléchie et cohérente de la part des intellectuels, devient une cause de passivité, d’autosuffisance imbécile, et ceci sans attendre que le subalterne soit devenu dirigeant et responsable. Une partie de la masse, même subalterne, est toujours dirigeante et responsable et la philosophie de la partie précède toujours la philosophie du tout non seulement comme anticipation théorique, mais comme nécessité actuelle.

Que la conception mécaniste ait été une religion des subalternes, cela apparaît à partir d’une analyse du développement de la religion chrétienne qui, dans une certaine période historique et dans des conditions historiques déterminées a été et continue d’être une « nécessité », une forme nécessaire de la volonté des masses populaires, une forme déterminée de rationalité du monde et de la vie et qui donne les cadres généraux pour l’activité pratique réelle. Dans ce passage d’un article de la « Civilità Cattolica » (Individualisme païen et individualisme chrétien, fascicule du 5 mars 1932) me paraît bien exprimée cette fonction du christianisme : « la foi en un avenir sûr, en l’immortalité de l’âme, destinée à la béatitude, dans l’assurance de pouvoir parvenir à la jouissance éternelle, fut le ressort pour un travail d’intense perfection intérieur et d’élévation spirituelle. Le véritable individualisme chrétien a trouvé là l’impulsion de ses victoires. Toutes les forces du christianisme furent rassemblées autour de cette fin noble. Libéré des fluctuations spéculatives qui énervent l’âme du doute, et illuminé par des principes immortels, l’homme sent renaître les espérances ; sûr qu’une force supérieure le fera surgir dans la lutte contre le mal, il fait violence à lui-même et vainc le monde. » Mais dans ce cas aussi, c’est le christianisme ingénu qui se fait entendre ; non le christianisme jésuitique, devenu un pur narcotique pour les masses populaires.

Mais la position du calvinisme, avec sa conception rigide de la prédestination et de la grâce, qui détermine une vaste expansion de l’esprit d’initiative (ou devient la forme de ce mouvement) est encore plus expressive et significative. (À ce propos, on peut voir : Max Weber, L’éthique protestante et l’esprit du capitalisme, publié dans les « Nuovi Studi », fascicule de 1931 et suivants, et le livre de Groethuysen sur les origines de la bourgeoisie en France[2]).

Pourquoi et comment se diffusent et deviennent populaires les nouvelles conceptions du monde ? Dans ce processus de diffusion (qui est en même temps de substitution de l’ancien et très souvent de combinaison entre l’ancien et le nouveau), est-ce qu’influent et dans quelle mesure, la forme rationnelle dans laquelle la nouvelle conception est présentée, l’autorité (en tant que reconnue et appréciée au moins génériquement) de celui expose ces nouvelles conceptions du monde et des penseurs et savants qu’il appelle à son soutien , l’appartenance à la  même organisation de ceux qui soutiennent la nouvelle conception (après cependant être entrés dans l’organisation pour un autre motif qui n’est pas celui de partager la nouvelle conception) ? Ces éléments en réalité varient selon le groupe social et le niveau culturel du groupe donné. Mais la recherche intéresse spécialement pour ce qui concerne les masses populaires qui changent plus difficilement de conceptions et qui n’en changent jamais, en tout cas, en les acceptant dans la forme « pure » pour ainsi dire, mais seulement comme combinaison plus ou moins hétéroclite et bizarre. La forme rationnelle, logiquement cohérente, la complétude du raisonnement qui ne laisse de côté aucun argument  positif ou négatif d’une quelconque poids, a son importance, mais elle bien loin d’être décisive de manière subordonnée, quand la personne donnée est déjà dans des conditions de crise intellectuelle et louvoie déjà entre l’ancien et le nouveau, elle a perdu la foi dans l’ancien et ne s’est pas encore décidée pour le nouveau, etc.. Cela peut se dire ainsi pour l’autre l’autorité des penseurs et des savants. Elle est très grande dans le peuple, mais, de fait, chaque conception a ses penseurs et ses savants à mettre en avant, et l’autorité est divisée ; en outre, il est possible pour chaque penseur de distinguer, de mettre en doute qu’il ait vraiment dit de telle manière, etc.. On peut conclure que le processus de diffusion des conceptions nouvelles advient pour des raisons politiques, c’est-à-dire en dernière instance sociales, mais que l’élément formel de la cohérence logique, l’élément d’autorité, l’élément d’organisation ont dans ce processus une très grande fonction tout de suite après que l’orientation générale se soit manifestée, soit chez des individus singuliers, soit dans des groupes nombreux. De cela on peut conclure cependant que dans les masses en tant que telles la philosophie ne peut pas être vécue comme une foi. Si on imagine, du reste, la position intellectuelle d’un homme du peuple, il s’est formé des opinions, des convictions, des critères de discrimination et des normes de conduite. Chacun de ceux qui soutiennent un point de vue opposé au sien, en tant qu’il est intellectuellement supérieur, sait argumenter ses propres raisons mieux que lui, l’enfonce logiquement, etc.. Pourquoi l’homme du peuple devrait-il pour autant changer ses convictions ? Parce que dans la discussion immédiate il ne sait pas se mettre en valeur ? Mais il se pourrait qu’il doive changer une fois par jour, chaque fois qu’il trouve un adversaire idéologique intellectuellement supérieur. Sur quels éléments se fonde donc sa philosophie ? Et spécialement sa phi dans la forme qui pour lui a la plus grande importance comme norme de conduite ? L’élément le plus important est indubitablement de caractère non rationnel, de foi. Mais en qui et en quoi ? Spécialement dans le groupe social auquel il appartient en tant qu’il pense comme lui de façon diffuse : l’homme du peuple pense que, à être si nombreux, on ne peut pas se tromper, comme cela en bloc, comme l’argumentaire de l’adversaire voudrait le faire croire ; que lui-même, il est vrai, n’est pas capable de soutenir et de développer ses propres raisons comme l’adversaire les siennes, mais que dans son groupe il y en a qui saurait le faire, certainement mieux que cet adversaire déterminé et il se souvient d’avoir entendu exposer de manière diffuse, cohérente, de telle sorte qu’il en est resté convaincu, les raisons de sa foi. Il ne souvient pas des raisons concrètement et il ne saurait les répéter, mais il sait qu’elles existent parce qu’il les a entendu exposer et en est resté convaincu. Avoir été convaincu une fois, de manière fulgurante est la raison permanente de la permanence de la conviction, même on ne sait plus l’argumenter.

Mais ces considérations conduisent à la conclusion d’une extrême labilité dans les convictions nouvelles des masses populaires, spécialement si ces convictions sont opposées aux convictions (même nouvelles) orthodoxes, solidement conformistes, selon les intérêts généraux des classes dominantes. On peut voir ceci en réfléchissant au sort des religions et des églises. La religion, et une église déterminée, maintient sa de fidèles (entre certaines limites, des nécessités du développement historique général dans la mesure où elle entretient de manière permanente et organisée sa foi propre, en répétant l’apologétique assidument, en luttant à tout moment et toujours avec des arguments et en maintenant une hiérarchie d’intellectuels qui à la foi donnent au moins l’apparence de la dignité de la pensée. Chaque fois que la continuité des rapports entre église et fidèles a été interrompue violemment, pour des raisons politiques, comme cela est arrivé pendant la Révolution Française, les pertes subies par l’église ont été incalculables et si les conditions d’un exercice difficile des pratiques coutumières s’étaient prolongées au-delà de certaines limites de temps, il est à penser que de telles pertes auraient été définitives et qu’une nouvelle religion en serait sortie comme du reste en France en combinaison avec le vieux catholicisme. S’en déduisent des nécessités déterminées pour tout mouvement culturel qui tend à remplacer le sens commun et les vieilles conceptions du monde en général : 1) ne jamais se lasser de répéter ses propres arguments (en en variant littérairement la forme) : la répétition est le moyen didactique le plus efficace pour agir sur la mentalité populaire ; 2) travailler incessamment pour élever intellectuellement des strates populaires toujours plus vastes, c’est-à-dire pour donner une personnalité à l’élément de masse amorphe, ce qui signifie travailler à susciter des élites d’intellectuels d’un type nouveau qui surgissement directement de la masse, en restant pourtant en contact avec elle pour en devenir les « baleines » du corset. Cette seconde nécessité, si elle est satisfaite, est celle qui réellement modifie le « panorama » idéologique d’une époque. Et, d’autre part, ces élites ne peuvent se construire et se développer sans que, à l’intérieur d’elles-mêmes, ne se vérifie une hiérarchisation de l’autorité et de la compétence intellectuelle, qui peut culminer en un grand philosophe individuel, si celui-ci est capable de ranimer concrètement les exigences de la idéologique de la masse, qu’elle ne peut avoir l’élégance et la simplicité de mouvement propre  à un cerveau individuel et partant réussir à élaborer formellement la doctrine la plus adaptée et la plus adéquate aux modes de penser d’un penseur collectif.

Il est évident qu’une construction de masse d’un tel genre ne peut arriver “arbitrairement”, à l’intérieur d’une idéologie quelle qu’elle soit, par la volonté formellement constructive d’une personnalité ou d’un groupe qui se le propose par fanatisme de ses propres convictions philosophiques ou religieuses. L’adhésion de masse à une idéologie ou la non adhésion est manière dont se vérifie la critique réelle de la rationalité et de l’historicité des modes de penser. Les constructions arbitraires sont plus ou moins rapidement éliminées de la compétition historique, même si parfois, par une combinaison de circonstances immédiates favorables, elles réussissent à jouir d’une telle popularité, alors que les constructions qui correspondent aux exigences d’une période historique complexe et organique finissent toujours par s’imposer et par prévaloir, même si elles traversent plusieurs phases intermédiaires dans lesquelles leur affirmation se fait seulement à travers des combinaisons plus ou moins bizarres et hétéroclites.

Ces développements posent de nombreux problèmes, dont les plus importants se résument dans le mode et dans la qualité des rapports entre les diverses strates intellectuellement qualifiées, c’est-à-dire dans l’importance et dans la fonction que doit et que peut avoir l’apport créatif des groupes supérieurs en connexion avec la capacité organique de discussion et de développement de nouveaux concepts critiques de la part des strates subordonnées intellectuellement. C’est-à-dire qu’il s’agit de fixer les limites de la liberté de discussion et de propagande, liberté qui ne doit pas être entendue dans le sens administratif et policier mais dans le sens des autolimites que les dirigeants posent à leur propre activité ou encore, au sens propre, de la fixation d’une direction culturelle. En d’autres mots : qui fixera les « droits de la science » et les limites de la recherche scientifique, et est-ce ces droits et ces limites pourront proprement être fixés ? Il paraît nécessaire que le travail de recherche de nouvelles vérités et de formulations meilleurs, plus cohérentes et plus claires des vérités elles-mêmes, soit laissé à l’initiative libre des savants individuels, même si eux-mêmes remettent en discussion ces mêmes principes qui paraissent les plus essentiels. Il ne sera pas difficile, du reste, de rendre clair quand de telles initiatives de discussion ont des motifs intéressés et ne sont pas de caractère scientifique. Du reste, il n’est pas impossible de penser que les initiatives individuelles soient disciplinées et ordonnées de sorte qu’elles passent à travers le crible des académies et des institutions culturelles de genre varié et que seulement après avoir été sélectionnées, elles deviennent publiques, etc..

Il serait intéressant d’étudier concrètement, pour un pays particulier, l’organisation culturelle qui met en mouvement le monde idéologique et d’en examiner le fonctionnement pratique. Une étude du rapport numérique entre le personnel qui professionnellement est dédié au travail culturel actif et la population de chaque pays serait aussi utile, avec un calcul approximatif des forces libres. L’école, dans ses degrés, et l’église sont les organisations culturelles majeures dans chaque pays, par le nombre des personnels qu’elles occupent. Les journaux, les revues et l’activité des libraires, les institutions scolaires privées, soit en tant qu’elles intègrent l’école de l’État, soit en tant qu’institutions de culture du type Université Populaire. D’autres professions incorporent dans leur activité spécialisée une fraction culturelle qui n’est indifférente, comme les médecins, les officiers de l’armée, de la magistrature. Mais il est à noter que dans tous les pays, bien que dans des mesures différentes, il existe une grande fracture entre les masses populaires et les groupes intellectuels, même ceux plus nombreux et plus proches de la périphérie nationale comme les maîtres et les prêtres. Et que ceci arrive parce que, même là où les gouvernants l’affirment en parole, l’État comme tel n’a pas une conception unitaire, cohérente et homogène, et disperse les groupes intellectuels entre les strates et entre les sphères de ces mêmes strates. L’université, excepté dans quelques pays, n’exerce aucune fonction unificatrice ; souvent un penseur libre a plus d’influence que toute l’institution universitaire, etc..

 



[1] Henry Wickham Steed (1871-1956), journaliste et historien anglais, correspondant du Times en poste à Berlin puis à Londres avant la 1ère guerre mondiale. AG cite ici ses « Mémoires » (1892-1922)

[2] Origines de l'esprit bourgeois en France. I. L'Eglise et la bourgeoisie5, Gallimard, 1927, 299 p. Bernard Groethuysen (1880-1946) est un écrivain et philosophe qui travaille sur l’histoire des idées. Il a été naturalisé français avant 1914 et a été l’élève de Simmel et de Dilthey. 

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Ecrit par dcollin le Dimanche 2 Septembre 2012, 11:56 dans "Philosophie italienne" Lu 4245 fois. Version imprimable

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