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La distinzione di azione e pensiero - La storia come liberazione della storia

B. Croce: La Storia come pensiero e come azione, VII e VIII

VII - LA DISTINZIONE DI AZIONE E PENSIERO.

Poiché si è stranamente pensato che bisognasse andar soffiando su tutti i lumi per assicurare interezza e purezza all'immanenza, quasi che sua degna sede sia il «regnum tene­brarum», non fa meraviglia che sia stata combattuta, e in immaginazione abbattuta, anche la distinzione primigenia e fondamentale, che il senso comune dell'umanità ha sempre posta e osservata e le filosofie hanno rispettata: quella del conoscere e del volere, del pensiero e dell'azione.

L'argomento che in ciô si adopera si riconduce al fonte di ogni sofisma, che è nel prendere uno stesso termine in due accezioni diverse, e, dimostrata l'una delle due accezioni, far passare come dimostrata l'altra e diversa. Che il pensiero sia attivo quanto l'azione, che esso non sia né copia né recipiente di una realtà che a questo modo si dica conosciuta, che la sua opera si esplichi nel porre e risolvere problemi, e non già nell'accogliere in sé passivamente pezzi di realtà, e che per­tanto il pensiero non stia fuori della vita, ma anzi sia funzione vitale, è da considerare risultamento di tutta la filosofia mo­derna, da Cartesio e Vico a Kant e a Hegel e ai pensatori contemporanei. Ma che perciò esso punto non si distingua dalla volontà, attivo l'uno come l'altra, tale è il sofisma di sopra accusato, e che fa finta di chiedere che la distinzione di cui ora si parla sia la medesima che erroneamente si poneva tra l'attività del volere e la passività del pensiero; onde l'argo­mento addotto, perché sofistico, non vale, e l'antica distin­zione di conoscenza e volontà, di pensiero e azione, rimane intatta.

Intatta nella sua sostanza, benché grandemente corretta e approfondita rispetto al modo in cui prima era concepita come una giustapposizione o un parallelismo o una divergenza di due facoltà dell'anima, e rispetto anche al rapporto che soleva stabilirsi di precedenza assoluta della conoscenza sulla volontà e azione pratica, o di questa su quella. Perché se il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis, come si è di sopra dimostrato, è necessaria al conoscere, che senz'essa non sorgerebbe. Circolarità spirituale, che rende vana la domanda del primo assoluto e del secondo dipendente col far del primo perpetuamente un secondo, e del secondo un primo. Questa circolarità è la vera unità e identità dello spi­rito con sé stesso, dello spirito che di sé stesso si nutre e cresce su sé stesso. Ogni altra unità è statica e morta, meccanica e non organica, matematica e non speculativa e dialettica.

 

Se il tentativo di cancellare la distinzione di questi due momenti dello spirito non fosse puerilmente ingenuo, il suo effetto sarebbe di distruggere la vita dello spirito col distrug­gere tutt'insieme pensiero e azione. Identificato con la vo­lontà e coi fini della volontà, il pensiero cesserebbe di essere creatore di verità e, facendosi tendenzioso, decadrebbe a men­zogna; e la volontà e l'azione, non più rischiarata dalla verità, si abbasserebbe a spasimo e furore passionale e patologico. Niente di ciò accade, perché sarebbe contro la natura delle cose e contro la vita dello spirito, il quale di continuo resiste alle seduzioni con cui gli interessi pratici cercano di attraver­sare e sviare la logica della verità, e di continuo lavora a cangiarela cieca passionalità in illuminata volontà ed azione: sicché non v'ha alcun timore che l'ordine delle cose crolli e il mondo finisca.

 

Ma se di ciò non v'ha timore, neppure è da credere che la theoria distruggitrice della unità-distinzione del conoscere e dell'operare sia e resti semplice elucubrazione e chiacchiera accademica, quando invece è stimolata e grandemente favorita da ben note malsanie dei nostri tempi, o, se si vuole, di tutti i tempi, ma fattesi particolarmente acute nei nostri. Basta guardarsi attorno e porgere ascolto alle voci che si levano dai circoli intellettuali e artistici, religiosi e politici, e insomma da ogni parte della società, per trovarsi dinanzi le manifestazioni dell'indifferenza e dell'irriverenza per la critica e per la verità, e l'attivismo privo di ideale, e tuttavia irruente e prepotente. E se in alcuni casi si tratta veramente di mediocre letteratura che non mena a conseguenze, in altri molti si osserva con quanta facilità gli assertori della statica identità del conoscere con l'operare, che hanno mortificato in sé stessi la vigile forza della interiore distinzione e chiarezza, passino, nella vita pub­blica, alla sofistica e alla rettorica in rispondenza dei propri comodi, ingrossando le file di quei «clercs» traditori, contro i quali uno scrittore francese, or è qualche anno, senti il biso­gno di stendere uno speciale atto d'accusa. La cattiva teoria e la cattiva coscienza si originano l'una dall'altra, si appoggiano l'una all'altra e cascano, infine, l'una sull'altra.

 

VIII - LA STORIOGRAFIA COME LIBERAZIONE DALLA STORIA.

Più strano è vedere come, invece di far oggetto di accurata e profonda analisi le malsanie sociali della specie di quella accennatae altre simili o diverse che siano, e di curarle dopo averne conosciuto la genesi e il corso, o di metterle per lo meno in una sorta d'ideale lazzaretto, sicché nocciano solo a coloro che ne sono già irrimediabilmente contaminati, si prenda ad accusare il pensiero storico o lo «storicismo», reo (si dice) di generare queste malsanie col promuovere il fatalismo, dissolvere i valori assoluti, santificare il passato, accettare la brutalità del fatto in quanto fatto, plaudire alla violenza, co­mmandare il quietismo, e, insomma, di togliere impeto e fiducia alle forze creatrici, ottundere il senso del dovere e disporre al­l'inerzia e ai pigri accomodamenti. Ma tutte queste cose hanno già i proprî loro nomi nel mondo , chiamandosi fiac­chezza d'animo, disgregamento volitivo, difetto di senso moralei superstizione del passato, sospettoso conservatorismo, viltà che cerca pretesti a sé medesima consapevolmente equivocando, e appellandosi alla necessità storica quando si tratta di risolversi e agire secondo necessità; e simili. E sebbene l'una o l'altra di queste cose si ritrovino talvolta, del pari che in qualsiasi altro uomo, in alcuno scrittore di storia (poniamo nello Hegel, il cui peccato o peccatiglio di conservatorismo so­ciale e di sudditismo politico ha avuto risalto dalla grandezza stessa della sua figura di filosofo e storico), niente ha da vedere con esso il il pensiero storico in quanto tale, che, se mai, opera tutt'al contrario di quelle tendenze e pendenze.

Noi siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt'intorno ci preme. Come muovere a nuova vita, come creare la nostra nuova azione senza uscire dal pas­sato, senza metterci di sopra di esso? E come metterci disopra del passato, se vi siamo dentro, ed esso è noi? Non v'ha che una sola via d'uscita, quella del pensiero, che non rompe il rapporto col passato ma sovr'esso s'innalza idealmente e lo converte in conoscenza. Bisogna guardare in faccia il passato o, fuori di metafora, ridurlo a problema mentale e risolverlo in una proposizione di verità, che sarà l'ideale premessa per la nostra nuova azione e nuova vita. Cosi ci comportiamo quoti­dianamente quando, invece di accasciarci sotto le contrarietà che ci hanno colpito, e stare a lamentarci e a vergognarci per gli errori che abbiamo commessi, esaminiamo l'accaduto, ne indaghiamo l'origine, ne percorriamo la storia e, con infor­mata coscienza, seguendo l'intima ispirazione, disegniamo quel che ci convenga o ci spetti di fare, e ci accingiamo, volen­terosi ed alacri, a farlo. Cosi parimente si comporta sempre l'umanità di fronte al suo grande e vario passato. Scrivere storie — notò una volta il Goethe — è un modo di togliersi di sulle spalle il passato. Il pensiero storico lo abbassa a sua ma­teria, lo trasfigura in suo oggetto, e la storiografia ci libera dalla storia.

 

Solo uno strano oscuramento nelle idee può impedire di scorgere tale ufficio catartico che la storiografia adempie al pari della poesia, questa disciogliendosi dalla servitù alla pas­sione, quella dalla servitù al fatto e al passato; e solo un più strano abbagliamento d'intelligenza fa considerare e chiamare carceriere colui che disserra la porta della prigione in cui altri­menti resteremmo chiusi. Gli ingegni storici — da non con­fondere certamente né coi monaci intenti a comporre regesti e cronache, né con gli eruditi che raccolgono narrazioni e docu­menti e ne cavano fuori con le loro industrie notizie bene attestate, né con gli scolareschi compilatori di manuali stori­ci — sono stati sempre uomini variamente operosi, condotti a meditare sulle situazioni che si sono formate per surpassarle e aiutare gli altri a sorpassarle mercé di nuova operosità: politici che hanno scritto storie politiche, filosofi che hanno scritto storie della filosofia, spiriti artistici che hanno voluto procac­ciarsi con l'intelligenza della storia dell'arte il godimento delle opere dell'arte, uomini di gran fervore civile e che hanno severamente scrutato la storia della civiltà umana. Le età in cui si preparano rif orme e rivolgimenti sono attente al passato, a quello del quale vogliono spezzare i fili, e a quello di cui vogliono riannodarli per continuare a intesserli. Le età consuetudinarie, lente e pesanti, preferiscono alle storie le favole e i romanzi, o riducono la storia stessa a favola e a ro­manzo. Similmente, gli uomini che si chiudono nell'egoismo dei loro privati affetti e della privata loro vita economica, si disinteressano a quanto è accaduto e accade nel vasto mondo, e non riconoscono altra storia se non quella di corto respiro dell'angusta loro cerchia.

 

Traduction

La distinction entre pensée et action Puisque on a étrangement pensé qu’il fallait souffler sur toutes les lumières pour assurer l’intérêt et la pureté de l’immanence, presque comme si son digne siège était le « royaume des ténèbres, on ne s’étonnera pas qu’ait été combattue en imagination et en imagination abattue, même la distinction primordiale et fondamentale, que le sens commun de l’humanité a toujours établie et observée et que les philosophes ont respectée, celle de la connaissance et de la volonté, de la pensée et de l’action.

 

L’argument qui est ici utilisé nous reconduit à la source de tout sophisme, qui est de prendre un même terme dans deux acceptions différentes, et l’une des deux acceptions étant démontrée, faire passer l’autre qui est différente comme démontrée. Que la pensée soit active, autant que l’action elle-même, qu’elle ne soit ni la copie ni le récipient d’une réalité que sous ce mode on dit connue, que son action s’explicite dans le fait de poser et de résoudre des problèmes et non pas dans le fait de recueillir en elle-même passivement des morceaux de la réalité et que, partant, la pensée ne se tienne pas en dehors de la vie, mais au contraire soit une fonction vitale, cela est à considérer comme résultant de toute la philosophie moderne, de Descartes et Vico à Kant et Hegel et aux penseurs contemporains. Mais que pour cette raison, on ne la distingue pas de la volonté, puisqu’elles sont actives l’une comme l’une comme l’autre, tel est le sophisme pointé ci-dessus et qui feint de demander que la distinction dont on parle maintenant soit la même que celle qu’on posait de manière erronée entre l’activité du vouloir et la passivité de la pensée ; d’où l’argument adopté, parce que sophistique, ne vaut rien et l’antique distinction entre connaissance et volonté, pensée et action demeure intacte.

 

Intacte dans sa substance, bien que grandement corrigée et approfondie relativement à la manière dont elle avait été d’abord conçue comme une juxtaposition ou un parallélisme ou une divergence de deux facultés de l’âme, et relativement aussi au rapport que l’on avait l’habitude d’établir de préséance absolue de la connaissance sur la volonté et l’action pratique, ou de celle-ci sur celle-là. Parce que la connaissance est nécessaire à la praxis, tout autant, la praxis, comme on l’a montré plus haut, est nécessaire à la connaissance qui sans elle ne pourrait prendre naissance. Circularité spirituelle, qui rend vaine la demande d’un primat absolu dont le second dépendrait en faisant perpétuellement du premier un second et du second un premier. Cette circularité est la véritable unité et identité de l’esprit avec lui-même, l’esprit qui se nourrit de soi-même et croit de soi-même. Toute autre unité est statique et morte, mécanique et non organique, mathématique et non spéculative et dialectique.

Si la tentative d’effacer la distinction de ces deux moments de l’esprit n’était pas puérilement ingénue, son effet serait de détruire la vie de l’esprit en détruisant tout ensemble la pensée et l’action. Identifiée avec la volonté et avec les fins de la volonté, la pensée cesserait d’être créatrice de vérité, et, se faisant tendancieuse, dégénérerait en mensonge ; et la volonté et l’action, qui ne serait plus éclairée par la vérité, s’abaisseraient à n’être que spasme et fureur passionnelle et pathologique. Rien de ceci n’arrive parce qu’il serait contre la nature des choses et contre la vie de l’esprit, lequel continument résiste aux séductions par lesquelles les intérêts pratiques cherchent à traverser et à dévier la logique de la vérité, et continument travaille à changer l’aveugle disposition passionnelle et volonté et action illuminée : de sorte qu’il n’y a pas à redouter que l’ordre des choses s’écroule et que le monde ne finisse.

Mais s’il n’y a aucune crainte de cette sorte à avoir, pour autant il ne faudrait pas croire que la théorie destructrice de l’unité-distinction du connaitre et de l’agir soit et reste simple élucubration et bavardage académique, quand, au contraire, elle est stimulée et grandement favorisée par les maladies bien connues de notre temps, ou, si on veut, de tous les temps, mais qui se font particulièrement aiguës dans les nôtres. Il suffit de regarder autour de soi et de prêter l’oreille aux voix qui s’élèvent des cercles intellectuels et artistiques, religieux et politiques, en bref de toutes les parties de la société, pour se trouver face aux manifestation de l’indifférence et de l’irrévérence pour la critique et pour la vérité, et l’activisme privé d’idéal, et toutefois impétueux et prédominant. Et si dans quelques cas, il s’agit vraiment d’une médiocre littérature qui ne porte pas à conséquences, dans beaucoup d’autres on observe avec quelle facilité, les défenseurs de l’identité statique du connaître avec l’agir, qui ont mortifié en eux-mêmes la force vigilante de la distinction intérieure et de la clarté, passent dans la vie publique à la rhétorique et à la sophistique en fonction de leurs propres commodités, grossissant les rangs de ces « clercs » traitres contre lesquels un écrivain français, il y a maintenant quelques années, a éprouvé le besoin d’établir un acte d’accusation spécial.

L’historiographie comme libération de l’histoire

Plus étrange est de voir comment, au lieu de faire l’objet d’une analyse acérée et profonde des maladies sociales de l’espèce de celle soulignée et aussi semblables ou différentes qu’elles soient, et de les soigner après en avoir connu la genèse et le cours, ou de les mettre pour le moins dans une sorte de lazaret idéal, de sorte qu’elles ne nuisent plus qu’à ceux qui sont déjà contaminés, on se prend à accuser la pensée historique et « l’historicisme », coupables (dit-on) d’engendre ces maladies en promouvant le fatalisme, la dissolution des valeurs absolues, la sanctification du passé, l’acceptation de la brutalité du fait en tant que fait, l’applaudissement à la violence, le commandement du quiétisme, et, en somme, le fait d’enlever tout élan et toute confiance aux forces créatrices, d’émousser le sens du devoir et de disposer à l’inertie et aux accommodements paresseux. Mais toutes ces choses ont déjà leur propre nom dans le monde moral, se nommant abaissement de l’âme, désagrégation de la volonté, défaut de sens moral, superstition du passé, conservatisme méfiant, vilénie qui cherche des prétextes consciemment équivoque avec elle-même, et en appelant à la nécessité historique quand il s’agit de se résoudre et d’agir selon la nécessité  ; et autres choses semblables. Et même s’il peut arriver que l’on trouve l’une ou l’autre de ces choses parfois, tout comme chez un autre homme, dans quelque écrivain de l’histoire (disons Hegel, dont le péché ou la peccadille de conservatisme social et d’assujettissement politique était ressorti de la grandeur même de sa figure de philosophe et d’historien), cela n’a rien à voir le penser historique en tant que tel qui s’exerce au contraire de ces tendances et penchants.

Nous, nous sommes des produits du passé et nous vivons immergés dans le passé qui tout autour fait pression sur nous. Comment se mouvoir vers une nouvelle vie, comment créer notre nouvelle action sans sortir du passé, sans nous mettre au-dessus de lui ? Et comment nous mettre au-dessus du passé si nous sommes dedans et s’il est nous-mêmes ? Il n’y a qu’une seule issue, celle de la pensée qui ne rompt pas le rapport avec le passé mais s’élève sur lui idéalement et le convertit en connaissance. Il est besoin de regarder le passé en face ou, hors de toute métaphore, de le réduire à un problème mental et de la résoudre dans une proposition de vérité, qui sera la prémisse idéale pour notre nouvelle action et notre nouvelle vie. Ainsi nous comportons-nous quotidiennement quand, au lieu de nous laisser abattre par les contrariétés qui nous ont frappés, et de rester à nous lamenter ou nous repentir de nos erreurs, nous examinons ce qui est arrivé, nous en recherchons l’origine, nous en parcourons l’histoire et avec une conscience informée, en suivant notre inspiration intime, nous désignons ce qui nous convient, ou ce qui nous convient de faire, et ce que nous sommes prêts à faire, volontairement et vivement. Ainsi, de la même façon, se comporte toujours l’humanité face à son passé grand et varié. Écrire l’histoire – nota un jour Goethe – est une manière de prendre le passé sur nos épaules. La pensée historique l’abaisse à sa matière, le transfigure en son objet et l’historiographie nous libère de l’histoire.

 

Seul un étrange obscurcissement de nos idées peut nous empêcher de découvrir cet office cathartique que l’historiographie remplir à l’égal de la poésie, celle-ci nous affranchissant de la servitude des passions, celle-là de la servitude des faits et du passé ; et seulement un plus étrange travestissement de l’intelligence fait considérer et nommer geôlier celui qui desserre la porte de la prison dans laquelle autrement nous resterions enfermés. Les esprits historiques – à ne pas confondre certainement ni avec les moins occupés à établir des registres et des chroniques, ni avec les érudits qui recueillent  narrations et documents et en extraient leurs productions  bien attestées, ni avec les compilateurs scolaires de manuels historiques – ont été toujours des hommes actifs de manières diverses, conduits à méditer sur les situations qui se sont formées pour les dépasser et aider les autres à dépasser  grâce à de nouvelles actions : politiques qui ont écrit des histoires de la philosophie, esprits artistiques qui ont voulu se procurer avec l’intelligence de l’histoire de l’art la jouissance des œuvres de l’art, hommes de grande ferveur civique et qui ont sévèrement scruté l’histoire de la civilisation humaine. Les âges dans lesquels se préparent les réformes et les bouleversements sont attentifs au passé, vers celui dont ils veulent rompre les fils, et vers celui avec qui ils veulent renouer pour continuer à les tisser. Les âges ordinaires, lents et pesants, préfèrent aux histoires les fables et les romans. Similairement, les hommes qui s’enferment dans l’égoïsme de leurs affects privés et de leur vie économique privée se désintéressent de ce qui est arrivé et de ce qui arrive dans le vaste monde, et ne reconnaissent d’autre histoire que celle à courte respiration de leurs cercles étroits.

 

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Ecrit par dcollin le Mardi 9 Avril 2013, 19:53 dans "Philosophie italienne" Lu 4198 fois. Version imprimable

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