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Le categorie della storia e le forme delle spirito

B. Croce: La Storia come pensiero e come azione, VI

La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudiizio, considerate anch'esse una trascendenza, giacché, si è detto, le categorie fanno tutt'uno col giudizio, e cangiano e si arricchiscono col sempre nuovo giudizio: infiniti giudizi, infinite categorie.
 
Senonché la distinzione delle categorie non ha niente da vedere con una loro supposta trascendenza di contro al giudizio, perché si compie dentro al giudizio stesso, per virtù del giudizio, come sua attuazione, non potendosi giudicare se non distinguendo, distinguendo a per la sua qualità da b per la sua qualità, cioè secondo categorie. Quale mai giudizio sarebbe quelIo che non qualificasse l'atto a come atto di verità, l'atto b come atto di bellezza, l'atto c come atto di accorgimento politico, l'atto d come di sacrificio , e via distinguendo, e si restringesse a porre intuitivamente diversi a, b, c, ecc., il che, se basta alla fantasia, non basta al pensiero? Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arrichimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le esterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell'atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno questi concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti dell'atto logico, se la categoria «logicità» non fosse costante e ritrovabile in essi tutti.

Ma quella polemica mostra aperto di essere trascorsa ol­tre il segno nella sua incapacità di rendere ragion del motivo di verità che è da ricercare e mettere in chiaro anche nell'er­rore della trascendenza, posto che si consenta che in fondo ad ogni errore si annida sempre un consimile motivo. Il quale, in rapporto alla filosofia trascendente, consisteva appunto nel­l'esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali (buono, vero, giusto, ecc.), ciascuno nel suo carattere proprio e ciascuno opposto al suo opposto (catti­vo, falso, ingiusto, ecc.), e di proteggerli contro le confusioni e le negazioni che uomini tutto attenuti al senso inavveduta­mente ne facevano. L'errore, invece, in cui essa s'intricava, veniva dalla pretesa di distaccarli da quel flusso e metterli in salvo in una sfera superiore, trascendendo la realtà: che valeva dare di un problema logico una soluzione fantastica. Ma con­tro il sensismo e l'edonismo era quella un'esigenza di sana vita intellettuale e spirituale in genere, che, nonostante il suo er­rore, ha operato beneficamente in vari tempi della storia delle idee, a cominciare dalle definizioni che Socrate elaborava di contro ai sofisti, e dalle idee che Platone trasferi nell'iperura­nio. Per accennare a tempi recenti, in Germania, nell'otto­cento, a consimile rimedio ricorse il rigido pedagogista Her­bart contro le perversioni della dialettica e dello storicismo in parte nello Hegel stesso, ma più ancora nella scuola hegeliana, che sembravano insidiare non meno la serietà della vita mo­rale che quella della vita scientifica, l'una con la fluidità e mollezza dei concetti, l'altra coi compromessi e i facili pas­saggi dall'un partito all'opposto. Fu una reazione e, come rea­zione, esagerò separando i concetti dalle rappresentazioni e segnandone cosi forte i contorni da chiuderli ciascuno in sé e porli tutti indeducibili e senza rapporto gli uni con gli altri; e con tutto meglio quella distinzione, alquanto chiaramente pagata con la trascendenza dei valori sui fatti, che non la poltiglia di rappresentazioni e concetti, di concetti puri e concetti empirici, che oggi taluni vorrebbero restaurare nel pensare filosofico, senza aver forse chiara consapevolezza di quel che chiedono, e senza rendersi conto della grande perdita che si  farebbe di quanto si è in questa parte faticosamente acquistato per opera della critica filosofica, che è sempre rivoluzionaria e conservatrice insieme.

Che se una certa parvenza di ben filato ragionamento rimane a siffatte richieste viene da questo, che le proposizioni di astratta filosofia unitaria non sono portate alla prova dei particolari, ossia dei particolari e precisi giudizi e del concreto pensare, con l'attendere a narrare la storia delle varie attività umane; nella quale prova andrebbero presto miseramente in pezzi. Più agevole e più prudente sembra in quel poco che quegli ingegni generici sono pur costretti a dare di trattazioni storiche, introdurre surrettiziamente le distinzioni negate nella loro metodologia, o valersene dichiarandole al tempo stesso empiriche: a un di presso come usô un musul­mano inviato dal gran Sultano, che venne a Napoli nel sette­cento alla corte del re Carlo di Borbone, del quale mi accadde di leggere in una relazione diplomatica che bevve nei banchetti napoletani molto sciampagna, ma chiamandolo, e impo­nendo cosi agli altri di chiamarlo, «limonata». Mi si perdoni questo ricordo, certamente sconveniente alla gravità filoso­Iica, ma non certo sconveniente al caso di cui si è toccato.

Traduction

La polémique contre la transcendance, en dépassant son but, a conduit à nier la distinction des catégories du jugement, considérées elles aussi comme une transcendance, alors que, comme on l’a dit, les catégories font tout un avec le jugement et changent et s’enrichissent avec chaque jugement nouveau : jugements infinis, catégories infinies.

Toutefois, la distinction des catégories n’a rien à voir avec leur supposée transcendance par rapport au jugement, parce qu’elle s’accomplit à l’intérieur du jugement lui-même,  par la du jugement, comme son actuation, car on ne peut juger sinon en distinguant a par sa qualité de b par sa qualité, c’est-à-dire selon des catégories. Quel jugement serait jamais celui qui ne qualifierait l’acte a come acte de vérité, l’acte b comme acte visant la beauté, l’acte c comme acte de prudence politique, l’acte c comme acte de sacrifice moral et ainsi de suite en distinguant, et qui se restreindrait à poser intuitivement différents a, b, c etc. ce qui s’il suffit à l’imagination ne suffit pas à la pensée ? Et les catégories ne changent pas, même de ce changement qu’on appelle enrichissement, étant elles-mêmes les opérateurs des changements : si le principe du changement changeait lui-même, le mouvement s’arrêterait. Ce qui change et s’enrichit, ce ne sont pas les catégories externes, mais nos concepts des catégories, qui incluent en eux-mêmes pas à pas toutes les nouvelles expériences mentales, de sorte que – prenons par exemple l’acte logique -  notre concept est plus subtile et  plus armé que ne l’était celui de Socrate ou d’Aristote, et de quelle manière ces concepts, plus pauvres ou plus riches, ne seraient pas des concepts logiques, si la catégorie de « logicité » n’était pas constante et retrouvable en eux tous.

Mais cette polémique montre clairement qu’elle est allée au-delà de son but dans son incapacité à rendre raison du motif du motif de vérité qui est à rechercher et à mettre au clair même dans l’erreur de la transcendance, étant établi qu’on doit admette qu’au fond de chaque erreur se cache toujours un motif semblable. Lequel, en rapport avec la philosophie transcendante, consistait précisément dans l’exigence de maintenir solide dans le flux dans le flux de la réalité le critère des valeurs spirituelles (bon, vrai, juste, etc.) et de les protéger contre les confusions et les négations que les hommes tout attachés aux sens en faisaient par inadvertance. L’erreur, au contraire, dans laquelle elle était intriquée venait de sa prétention à les séparer de ce flux et à les mettre à l’abri dans une sphère supérieure, transcendant la réalité : ce qui équivalait à donner à un problème logique une solution fantastique. Mais contre le sensualisme et l’hédonisme, elle était cette exigence d’une saine vie intellectuelle et spirituelle dans tous les aspects (en tous genres), qui, nonobstant son erreur a exercé heureusement aux différents moments de l’histoire des idées, à commencer par les définitions que Socrate élaborait contre les sophistes, et par les idées que Platon avait transférées au-delà d’Uranus. Pour faire allusion aux temps récents, au XIXe siècle, c’est à un remède semblable qu’a eu recours  le pédagogue rigide Herbart contre les perversions de la dialectique et de l’historicisme, en partie chez Hegel lui-même, mais plus encore dans l’école hégélienne qui semblaient non moins le sérieux de la vie que celui de la vie scientifique, l’une avec la fluidité et la mollesse des concepts, l’autre avec les compromis et les passages faciles d’un parti au parti opposé. Ce fût une réaction, et comme réaction, elle exagéra en séparant les concepts des représentations et en en dessinant si fortement  les contours au point de les clore chacun en soi et les poser tous non déductibles et sans rapport les uns avec les autres ; et c’est tout de même mieux cette distinction chèrement payée par la transcendance des valeurs sur les faits que la bouillie de représentations et de concepts, de concepts purs et de concepts empiriques que certains aujourd’hui voudraient restaurer dans la pensée philosophique, sans avoir peut-être une claire conscience de ce qu’ils cherchent et sans se rendre compte de la grande perte que cela ferait de toute cette partie acquise avec tant de fatigue par l’exercice de la critique philosophique qui est toujours révolutionnaire et conservatrice en même temps.

Se une certaine apparence de raisonnement bien conduit demeure dans de telles recherches cela vient de ce que les propositions d’une philosophie abstraite unifiée ne sont jamais soumises à l’épreuve des particuliers, c’est-à-dire des jugements particuliers et précis et de la pensée concrète, quand on atteint le moment où il faut narrer l’histoire des différentes activités humaines ; dans laquelle épreuve elle serait vite misérablement réduite en morceaux. Il semble plus aisé et plus prudent le peu de fois où ces esprits généralistes sont pourtant contraints de donner des récits historiques, d’introduire subrepticement les distinctions niées dans leur méthodologie, ou de s’en servir en les déclarants en même temps empiriques : à peu près comme un musulman envoyé par le grand sultan qui vint à Naples au XVIIIe siècle à la cour du roi Charles de Bourbon au sujet duquel il m’est arrivé de lire dans une note diplomatique, qu’il buvait beaucoup de champagne dans les banquets napolitains mais en l’appelant et en imposant aussi aux autres de l’appeler « limonade ». Pardonnez-moi ce souvenir, certes inconvenant pour la gravité philosophique, mais certes pas inconvenant pour le sujet qui nous occupe.

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Ecrit par dcollin le Mardi 9 Avril 2013, 19:50 dans "Philosophie italienne" Lu 3354 fois. Version imprimable

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