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Il moderno Principe

Gramsci - Extrait des Quaderni del Carcere

Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l'ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l'utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l'elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e « antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». Il processo di formazione di una determinata volontà collettiva, per un determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche di principî e criteri di un metodo d'azione, ma come qualità, tratti caratteristici, doveri, necessità di una concreta persona, ciô che fa operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una più concreta forma alle passioni politiche. (Sarà da cercare negli scrittori politici precedenti al Machiavelli se esistono scritture configurate come il Principe. Anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere «mitico» del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico. Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe ènel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell'intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe, «realmente esistente». Neli'intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logrco, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d'azione. Ecco perché l'epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di « appiccicato» dall'esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell'opera, anzi come quell'elemento che riverbera la sua vera Luce su tutta l'opera e ne fa come un «manifesto politico».

 

Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato professionale. E vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell'azione pratica del sindacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un'« attività passiva» per cosi dire, di carattere cioè negativo e preli minare (il carattere positivo è dato solo dall'accordo raggiunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La soluzione era abbandonata all'impulso dell'irrazionale, dell'« arbitrario » (nel senso bergsoniano di «impulso vitale») ossia della « spontaneità». [...]

Puà un mito perè essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell'ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti ? Ma questa volontà collettiva, cosi formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti ? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si suppone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio – slancio vitale) un massimo di determinismo, dietro l'idealismo un materialismo assoluto.

Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partite, politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un'azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma un'azione immediata di tal genre, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuovo strutture nazionali' e sociali (come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l'aspetto di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al concetto letterario dell'Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una volontà collettiva sia da creare ex novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete si e razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta.

Il carattere «astratto» della concezione sorelliana del «mito» appare dall'avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che certamente furono una «incarnazione categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione di come si sia formata in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno per alcuni aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.

Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», impostando così la quistionc: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare ? Quindi un'analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli ? Bisogna risalire fino all'Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto.

La ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi nell'esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell'Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e piú stagnante [...]

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La quistione della classe politica, come è presentata nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle. Non si capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante. Talvolta pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte l'insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama la «parte colta» della società, o il «personale politico» (ceto parlamentare) dello Stato: talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo strato superiore, sia esclusa dalla classe politica in quanto deve appunto essere controllata e guidata dalla classe politica. La deficienza della trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del « partito politico» e ciò si capisce, dato il carattere dei libri del Mosca e specialmente degli Elementi di scienza politica: l'interesse del Mosca infatti ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vorrebbe reagire. D'altronde il Mosca inconsapevolmente riflette le discussioni suscitate dal materialismo storico, ma le riflette come il provinciale che «sente nell'aria» le discussioni che avvengono nella capitale e non ha il mezzo di procurarsene i documenti e i testi fondamentali: nel caso del Mosca «non avere i rnezzi» di procurarsi i testi e i documenti del problema che tuttavia tratta significa che il Mosca appartiene a quella parte di universitari che menue ritengono loro dovere fare sfoggio di tutte le cautele del metodo storico quando studiano le ideuzze di un pubblicista medioevale di terzo ordine, non ritengono o non ritenevano degne «del metodo» le dottrine del materialismo storico, non ritenevano necessario risalire aile fonti e si accontentavano di orecchiare articolucci di giornale e opuscoletti popolari.

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Quistione dell'«uomo collettivo» o del «conformismo sociale». Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e pirl alti tipi di civiltà, di adeguare la «civiltà» e la moralità delle phi vaste masse popolari aile necessità del continuo sviluppo dell' apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi d'umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare «libertà» la necessità e la coercizione ? Quistione del «diritto», il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di «indifferente giuridico» e che sono di dominio della società civile che opera senza «sanzioni» e senza « obbligazioni» tassative, ma non per tanto esercita una pressione collettiva e ottiene risultati obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc.

Concetto politico della cosi detta «rivoluzione permanente» sorto prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società era ancora, per dir cosi, allo stato di fluidità sotto molti aspetti: maggiore arretratezza della campagna e monopolio quasi completo dell'efficienza politico-statale in poche città o addirittura in una sola (Parigi per la Francia), apparato statale relativamente poco sviluppato e maggiore autonomia della società civile dall'attività statale, determinato sistema delle forze militari e dell'armamento nazionale, maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale ecc. Nel periodo dopo il 187o, con l'espansione coloniale europea, tutti questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano piti complessi e massicci e la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente» viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di «egemonia civile». Avviene nell'arte politica ciò che avviene nell'arte militare: la guerra di movimento diventa sempre piú guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l'arte politica come le «trincee» e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo «parziale» l'elemento del movimento che prima era «tutta» la guerra ecc.

La quistione si pone per gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute anacronistiche.

Analisi delle situazioni: rapporti di forza. Èil problema dei rapporti tra struttura e superstruttura che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell' ambito di due principî: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare l'esatta enunciazione di questi principi).

[«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi phi alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa pub risolvere; se si osserva con phi accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica dell'Economia Politica)].

Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principî di metodologia storica. Intanto nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch'essi da movimenti organici, ma il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici dànno luogo alla critica storico-sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell'« occasionale » sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è « vera » se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara piti gravi catastrofi).

L'errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce cosi o ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell'un caso si ha l'eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall'altro l'eccesso di «ideologismo»; nell'un caso si sopravalutano le cause meccaniche, nell'altro si esalta l'elemento volontaristico e individuale. (La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l'errore è grave nella storiografia, ancor piú grave diventa nell' arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell'errore, in quanto essi sostituiscono l'analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare all'azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano, ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

[Il non aver considerato il momento immediato dei «rapporti di forza» è connesso a residui della concezione liberale volgare, di cui il sindacalismo è una manif estazione che credeva di essere piú avanzata in quanto faceva realmente un passo indietro. Infatti la concezione liberale volgare dando importanza al rapporto delle forze politiche organizzate nelle diverse forme di partito (lettori di giornali, elezioni parlamentari e locali, organizzazione di massa dei partiti e dei sindacati in senso stretto) era phi avanzata del sindacalismo che Bava importanza primordiale al rapporto fondamentale economico-sociale e solo a questo. La concezione liberale volgare teneva conto implicite anche di tale rapporto (come appare da tanti segni) ma insisteva di phi sul rapporto delle forze politiche che era un'espressione dell'altro e in realtà lo conteneva. Questi residui della concezione liberale volgare si possono rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si dicono connesse alla filosofia della prassi e hanno dato luogo a forme infantili di ottimismo e di scempiaggine].

Questi criteri metodologici possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il logo significato se applicati all'esame di fatti storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell'esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico, si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789, cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge an che i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra cosi di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principî di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al 48 (quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interessante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana - per es. per l'insurrezione di Milano del 1853 - e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un elemento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di avvenimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini», la rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi essi parlano di piú rivoluzioni (il Io agosto sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella collezione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l'opera di Napoleone offre le piú aspre contraddizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione ? ecc. Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale del 1914.

In tutti questi modi di vedere c'è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 6o anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre phi lunghe: 89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870. E appunto lo studio di queste «ondate» a diversa oscillazione che permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da una parte e dall'altra tra lo svolgersi del movimento organico e quello del movimento di congiuntura della struttura. Si pué dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principî metodologici enunziati all'inizio di questa nota si pué trovare nella formula politico-storica di rivoluzione permanente.

Un aspetto dello stesso problema è la quistione cosi detta dei rapporti di forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche l'espressione generica: rapporti di forza favorevoli, sfavorevoli a questa o a quella tendenza. Cosi, astrattamente, questa formulazione non spiega nulla o quasi nulla, perché non si fa che ripetere il fatto che si deve spiegare presentandolo una volta come fatto e una volta come legge astratta e come spiegazione. L'errore teorico consiste dunque nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come «causa storica».

Intanto nel «rapporto di forza» occorre distinguere diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono questi:

1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che pué essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno pué modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.

2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento pué essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, cosi come si sono manifestati finora nella storia. Il primo e phi elementare è quello economico-corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita l'unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo professionale, ma non ancora del gruppo sociale phi vasto. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla legislazione e all'amministrazione e magari di modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti. Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase pin schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l'arca sociale, determinando oltre che l'unicità dei fini economici e politici, anche l'unità intellettuale e , ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando cosi l'egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati. Lo Stato è concepito si come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «naziona li», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell' ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibrii in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente, per cosi dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali (orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nove combinazioni originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali», la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d'uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato dall'esistenza nell'interno di ogni Stato di parecchie sezioni territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (cosi la Vandea era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell'unità territoriale francese; cosi Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo particolare di rapporti ecc.).

3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso dis tinguere due gradi: quello militare in senso stretto o tecnico-militare e il grado che si può chiamare politico-militare. Nello sviluppo della storia questi due gradi si sono presentati in una grande varietà di combinazioni. Un esempio tipico che può servire come dimostrazione-limite è quello del rapporto di oppressione militare di uno Stato su una nazione che cerca di raggiungere la sua indipendenza statale. Il rapporto non è puramente militare, ma politico-militare e infatti un tale tipo di oppressione sarebbe inspiegabile senza lo stato di disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività della sua maggioranza; pertanto l'indipendenza non potrà essere raggiunta con forze puramente militari, ma militari e politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti, per iniziare la lotta d'indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare un proprio esercito nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può avvenire che la rivendicazione di avere un proprio esercito sia soddisfatta dalla nazione egemone, ma ciò significa che già una gran parte della lotta è stata combattuta e vinta sul terreno politico-militare). La nazione oppressa opporrà dunque inizialmente alla forza militare egemone una forza che è solo «politico-militare», cioè opporrà una forma di azione politica che abbia la virai di determinare riflessi di carattere militare nel senso: 1) che abbia efficacia di disgregare intimamente l'efficienza bellica della nazione egemone; 2) che costringa la forza militare egemone a diluirsi e disperdersi in un grande territorio, annullandone gran parte dell'efficienza bellica. Nel Risorgimento italiano si può notare l'assenza disastrosa di una direzione politico-militare, specialmente nel Partito d'Azione (per congenita incapacità), ma anche nel partito piemontese-moderato sia prima che dopo il 1848, non certo per incapacità ma per «maltusianismo economicopolitico», cioè perché non si voile neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si tendeva solo a che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la pura sanzione di plebisciti regionali.

Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla quistione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove [sono] trattate quistioni che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno piú favorevole alla diffusione di certi molli di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo della vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicarnente «trova» una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr. l'affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se la posizione economica della borghesia era florida, cer tamente non era buona la situazione delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell'equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rom.pere l'equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. La quistione particolare del malessere o benessere economico corne causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, corne perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si pué dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell'insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all'altro, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di «respiro», sterminando fisicamente l'élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l'instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera.

Ma l'osservazione pid importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà pué essere applicata pin fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano corne si pué meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc. L'elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si pué fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); percié il compito essenziale è quello di attendere sisternaticamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre pin omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza. Cié si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché c'era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in esse.

Alcuni aspetti teorici e pratici dell' «economismo». Economismo - movimento teorico per il libero scambio - sindacalismo teorico. E da vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia avuto origine dalla filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine economiche del libero scambio, cioè, in ultima analisi, dal liberalismo. E percié è da vedere se l'economismo, nella sua forma più compiuta, non sia una filiazione diretta del liberalismo e abbia avuto, anche alle origini, ben pochi rapporti colla filosofia della praxis, rapporti in ogni modo solo estrinseci e puramente verbali. Da questo punto di vista è da vedere la polemica Einaudi-Croce, determinata dalla prefazione nuova (del 1917) al volume sul Materialismo storico: la esigenza, prospettata dall'Einaudi, di tener conto della letteratura di storia economica suscitata dall'economia classica inglese pué essere soddisfatta in questo sensu, che una tale letteratura, per una contaminazione superficiale con la filosofia della praxis, ha originato l'economismo; perciò quando l'Einaudi critica (in modo, a dir vero, impreciso) alcune degenerazioni economistiche, non fa altro che tirare sassi in piccionaia. Il nesso tra ideologie liberoscambiste e sindacalismo teorico è specialmente evidente in Italia, dove sono note l'ammirazione per Pareto dei sindacalisti come Lanzillo e C. Il significato di queste due tendenze è perè molto diverso: il primo è proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciô uscire dalla fase di primitivismo. L'impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l'origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si afferma che l'attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «regolamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale. Diverse è il caso del sindacalismo teorico, in quanto si riferisce a un gruppo subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante nello Stato. Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso di una frazione del gruppo dirigente che vuole modificare non la struttura dello Stato, ma solo l'indirizzo di governo, che vuole riformare la legislazione commerciale e solo indirettamente industriale (poiché è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli): si tratta di rotazione dei partiti dirigenti al governo, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile. Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta piú complessa: è innegabile che in esso l'indipendenza e l'autonomia del gruppo subalterno che si dice di esprimere sono invece sacrificate all'egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in dominante, o perché il problema non è neppur prospettato (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell'economia sindacale.

E per lo meno strano l'atteggiamento dell'economismo verso le espressioni di volontà, di azione e di iniziativa politica e intellettuale, come se queste non fossero una emanazione organica di necessità economiche e anzi la sola espressione efficiente dell'economia; cosi è incongrue che l'impostazione concreta della quistione egemonica sia interpretata come un fatto che subordina il gruppo egemone. Il fatto dell'egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l'egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l'essenziale, poiché se l'egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita ne1 nucleo decisivo dell'attività economica.

L'economismo si presenta sotto moite altre forme oltre che il liberismo e il sindacalismo teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio tipico l'astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870, dopo il 1900 sempre pin attenuato, fino al 1919 e alla formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i clericali facevano tra Italia reale e Italia legale era una riproduzione della distinzione tra mondo economico e mondo politico-legale), che sono moite, nel senso che può esserci semiastensionismo, un quarto ecc. All'astensionismo è legata la formula del «tanto peggio, tanto meglio» e anche la formula della cosi detta «intransigenza» parlamentare di alcune frazioni di deputati. Non sempre l'economismo è contrario all'azione politica e al partito politico, che viene perè considerato mero organismo educativo di tipo sindacale.

Un punto di riferimento per lo studio dell'economismo e per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è quel passaggio della Miseria della Filosofia dove si dice che una fase importante nello sviluppo di un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti di un sindacato non lottano solo phi per i loro interessi economici, ma per la difesa e lo sviluppo dell'organizzazione stessa (vedere la affermazione esatta; la Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese. Il brano sul materialismo francese è pid che altro un capitolo di storia della cultura e non un brano teoretico, come spesso viene interpretato, e come storia della cultura è ammirevole. Ricordare l'osservazione che la critica contenuta nella Miseria della Filosofia contro Proudhon e la sua interpretazione della dialettica hegeliana può essere estesa al Giolitti e allo hegelismo dei liberali moderati italiani in genere. Il parallelo Proudhon-Gioberti, nonostante rappresentino fasi storico-politiche non omogenee, anzi appunto per questo, può essere interessante e fecondo). È da ricordare insieme l'affermazione di Engels che l'economia solo in «ultima analisi» è la molla della storia (nelle due lettere sulla filosofia della praxis pubblicate anche in italiano)3 a collegarsi direttamente al passo della prefazione della Critica dell'Economia politica, dove si dite che gli uomini diventano consapevoli dei conflitti che si verificano nel mondo economico sul terreno delle ideologie.

In varie occasioni è affermato in queste note che la filosofia della praxis e molto phi diffusa di quanto non si voglia concedere. L'affermazione è esatta se si intende che è diffuso l'economismo storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni piú o meno sgangherate, e che pertanto l'ambiente culturale è completamente mutato dal tempo in cui la filosofia della praxis iniziè le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia crociana, che la phi grande eresia sorta nel seno della «religione della libertà» ha anch'essa, come la religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa come «superstizione», cioè è entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto l'economismo. E da vedere perô se, mentre la religione ortodossa si è ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia sempre mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione superiore, se cioè le scorie di superstizione non siano facilmente liquidabili.

Alcuni punti caratteristici dell'economismo storico: i) nella ricerca dei nessi storici non si distingue ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per fatto economico l'interesse personale e di piccolo gruppo, in senso immediato e « sordidamente giudaico». Non si tiene conto cioè delle formazioni di classe economica, con tutti i rapporti inerenti, ma si assume l'interesse gretto e usurario, specialmente quando coincide con forme delittuose contemplate dai codici criminali; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto al susseguirsi dei cangiamenti tecnici negli strumenti di lavoro. Il prof. Loria ha fatto un'esposizione brillantissima di questa dottrina applicata nell'articolo sull'influsso sociale dell' aeroplano, pubblicato nella «Rassegna contemporanea» del 1912; 3) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche elemento importante della produzione, la scoperta di una nuova materia prima, di un nuovo combustibile ecc., che portano con sé l'applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell'azionamento delle macchine. In questi ultimi tempi c'è tutta una letteratura sul petrolio: si può vedere come tipico un articolo di Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del 1929. La scoperta di nuovi combustibili e di nuove energie motrici, come di nuove materie prime da trasformare, hanno certo grande importanza, perché può mutare la posizione dei singoli Stati, ma non determina il moto storico ecc.

Avviene spesso che si combatte l'economismo storico, credendo di combattere il materialismo storico. E questo il caso, per esempio, di un articolo dell'« Avenir» di Parigi del ro ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» del 2r ottobre 1930, pp. 2303-4) e che si riporta come tipico: «Ci si dice da molto tempo, ma sopratutto dopo la guerra, che le quistioni d'interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi, sotto l'appellativo un po' dottrinario di «materialismo storico». Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono aile passioni, ma aile necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L'economia è tutto. Molti fiiosofi ed economisti «borghesi» hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucchi, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da quistioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera ? Il sentimento in materia nationale ? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall'avere. Ora questa è una pseudoverità assoluta. E completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono [piti che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono] sopratutto a delle considerazioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla. La continuazione dell'articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. L'articolo racchiude in breve una gran parte degli spunti piú banali di polemica contro la filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è contro l'economismo sgangherato di tipo loriano. D' altronde lo scrittore non è molto ferrato in argomento anche per altri rispetti: egli non capisce che le «passioni» possono essere niente altro che un sinonimo degli interessi economici e che è difficile sostenere essere l'attività politica uno stato permanente di esasperazione passionale e di spasimo; proprio la politica francese è presentata come una «razionalità» sistematica e coerente, cioè depurata di ogni elemento passionale ecc.

Nella sua forma phi diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che non intendono affaticarsi il cerveilo ma vogliono apparire furbissimi ecc. Come scrisse Engels, fa molto comodo a molti credere di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia, tutta la storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moraiistico, ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L'attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi.

Si è cosi dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l'« economismo » un canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca nel senso degli interessi immediati dovrebbe esser valida per tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l'« antitesi». Si è dimenticato inoltre un'altra proposizione della filosofia della praxis: quella che le « credenze popolari» o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali.

Gli errori di interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi «sordidamente giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e hanno cosi reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. Occorre perché combattere l'economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche e specialmente nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la lotta pué e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia, cosi come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della cosi detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democratico-rivoluzionaria4, importanza avuta dal sostegno dato aile ideologie costituentiste ecc.). Si potrebbe fare una ricerca sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano certi movimenti politici, prendendo come tipo il movimento boulangista (dal 1886 al 1890 circa), o il processo Dreyfus o addirittura il colpo di Stato del 2 dicembre (un'analisi del libro classico sul 2 dicembre5, per studiare quale importanza relativa vi si dà al fattore economico immediato e quale posto invece vi abbia lo studio concreto delle «ideologie»). Di fronte a questo evento, l'economismo si pone la domanda: a chi giova immediatamente l'iniziativa in quistione ? E risponde con un ragionamento tanto semplicistico quanto paralogistico. Giova immediatamente a una certa frazione del gruppo dominante e per non sbagliare questa scelta cade su quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva e di controllo sull'insierne delle forze economiche. Si pué esser sicuri di non sbagliare, perché necessariamente, se il movimento preso in esame andrà al potere, prima o poila frazione progressiva del gruppo dominante finirà col controllare il nuovo governo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio benefizio l'apparato statale. Si tracta adunque di una infallibilità molto a buon mercato e che non solo non ha significato teorico, ma ha scarsissima portata politica ed efficacia pratica: in generale non produce altro che prediche moralistiche e quistioni personali interminabili.

Quando un movimento di tipo boulangista si produce, l'analisi dovrebbe realisticamente essere condotta secondo questa linea: r) contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione aveva nell'equilibrio di forze che va trasformandosi come il nuovo movimento dimostra col suo stesso nascere ? 3) le rivendicazioni che i dirigenti presentano e che trovano consenso quale significato hanno politicamente e socialmente ? a quali esigenze effettive corrispondono ? 4) esame della conformità dei mezzi al fine proposto; 5) solo in nitima analisi e presentata in forma politica e non moralistica si prospetta l'ipotesi che tale movimento necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono. Invece questa ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (che cioè appaia tale con l'evidenza del senso comune e non per una analisi «scientifica» esoterica) esiste ancora per suffragarla, cosi che essa appare come un'accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca furberia, di stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica cosi diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell'ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine.

D'altronde, finché questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si puô sempre pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il boulangismo stesso, che è fallito come tale ed è poi stato schiacciato definitivarnente col movimento dreyfusardo, il movimento di Giorgio Valois, quello del Generale Gayda); la ricerca deve quindi dirigersi all'identificazione degli elementi di forza, ma anche degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l'ipotesi «economistica» afferma un elernento immediato di forza, cioè la disponibilità di un certo apporto finanziario diretto o indiretto (un grande giornale che appoggi il movimento è anche esso un apporto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco.

Anche in questo caso l'analisi dei diversi gradi di rapporto delle forze non puô culminare che nella sfera dell'egemonia e dei rapporti etico-politici.

A proposito dei confronti tra i concetti di guerra i manovrata e guerra di posizione nell'arte militare e i concetti relativi nell'arte politica è da ricordare il libretto della Rosa tradotto in italiano nel 1919 da C. Alessandri (tradotto dal francese)6. Nel libretto si teorizzano un po' affrettatamente e anche superficialmente le esperienze storiche del 1905: la Rosa infatti trascurè gli elementi « volontari » e organizzativi che in quegli avvenimenti furono molto phi diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata a credere per un certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista. Tuttavia questo libretto (e altri saggi dello stesso autore) è uno dei documenti piú significativi della teorizzazione della guerra manovrata applicata all'arte politica. L'elemento economico immediato (crisi ecc.) è considerato come l'artiglieria campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica, varco sufficiente perché le proprie truppe facciano irruzione e ottengano un successo definitivo (strategico) o almeno un successo importante nella direttrice della linea strategica. Naturalmente nella scienza storica l'efficacia dell'elemento economico immediato è ritenuta molto piú complessa di quella dell'artiglieria pesante' nella guerra di manovra, perché questo elemento era concepito come avente un doppio effetto: r) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell'identità di fine da raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l'aggravante che gli effetti erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio; perciò era un vero e proprio misticismo storico, l'aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.

L'osservazione del generale Krasnov (nel suo romanzo)$ che l'Intesa (che non voleva una vittoria della Russia imperiale, perché non fosse risolta definitivamente a favore dello zarismo la quistione orientale) impose allo Stato Maggiore russo la guerra di trincea (assurda dato l'enorme sviluppo del fronte dal Baltico al mar Nero, con grandi zone paludose e boscose) mentre unica possibile era la guerra manovrata, è una mera scempiaggine. In realtà l'esercito russo tentè la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore austriaco (ma anche nella Prussia orientale) ed ebbe successi brillantissimi, per quanto effimeri.

La verità è che non si puô scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite abbia costato l'ostinazione degli Stati Maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era «importa» dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell'esercito schierato, ed è imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dall'abbondanza del rifor nimento che permette di sostituire rapidamente il mate riale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un altro elemento è la grande massa d'uomini che partecipano allo schieramento, di valore molto diseguale e che appunto possono operare solo come massa. Si vide come nel fronte orientale altra cosa era f are irruzione nel settore tedesco e altra nel settore austriaco e come anche nel settore austriaco, rinforzato da truppe scelte tedesche comandato da tedeschi, la tattica irruenta fini nel disastro. Lo stesso si vide nella guerra polacca del 1920, quando l'avanzata che sembrava irresistibile fu fermata dinanzi a Varsavia dal generale Weygand sulla linea comandata da ufficiali francesi. Gli stessi tecnici militari che ormai si sono fissati sulla guerra di posizione come prima lo erano su quella manovrata, non sostengono certo che il tipo precedente debba essere considerato come espunto dalla scienza; ma nelle guerre tra gli Stati piú avanzati industrialmente e civilmente esso deve considerarsi ridotto a funzione tattica pin. che strategica, deve considerarsi nella stessa posizione in cui era prima la guerra d'assedio in confronto a quella manovrata. La stessa riduzione deve avvenire nell'arte e nella scienza politica, almeno per ciò che riguarda gli Stati pin avanzati, dove la « società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente aile «irruzioni» catastrofiche dell'elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d'artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell'attacco e dell'avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, cosi avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l'elemento della rapidità, del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico. L'ultimo fatto del genere nella storia della politica sono stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell'arte e della scienza della politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione. Si dice con «profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da punti di vista superficiali e banali, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda femminile, o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi fenomeni sono distrutti appena spiegati «realisticamente», come se fossero superstizioni popolari (che del resto anch'esse non si distruggono con lo spiegarle).

A questo nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto da nuove correnti nel movimento sindacale.

Un tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello esposto da L. Davidovic Bronstein' alla quarta riunione, quando fece un confronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde subito ma fu seguito da lotte inaudite: in questo le lotte si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la società civile resiste prima o dopo l'assalto, dove questo avviene ecc. La quistione perè è stata esposta solo in forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere pratico.

Sulla burocrazia. 1) Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di una necessità o di una degenerazione in confronto dell' autogoverno (self-government) come pretendono i liberisti «puri» ? È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare). L'unità dei lavoro manuale e intellettuale e un legame piú stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari Bletti, oltre che del controllo, si interessino dell'esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.

2) Connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima» è la discussione sui cosidetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» (che d'altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I. Saranno da ricercare ed esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione» politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica), sindacali economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.

Polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita dell'alta cultura e di alcune forze politiche internazionali; era poi reale questo predominio o in che cosa realmente consisteva ? Si può dire: a) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva una tale supremazia, che pertanto era un mero fenomeno di influsso culturale astratto e di prestigio molto labile; b) che tale influsso culturale non toccava per nulla l'attività effettuale, che viceversa era disgregata, localistica, senza indirizzo d'insieme. Non si può parlare perciò di nessun centralismo, né organico né democratico né d' altro genere o misto. L'influsso era sentito e subito da scarsi gruppi intellettuali, senza legame con le masse popolari e appunto questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia un tale stato di cose è degno di esame perché giova a spiegare il processo che ha condotto a formulare le teorie del centralismo organico, che sono state appunto una critica unilaterale e da intellettuali di quel disordine e di quella dispersione di forze.

Occorre intanto distinguere nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici, e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di una singola individualità, come quella del papa infallibile per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale programma come fatto politico consapevole. Il nome piú esatto sarebbe quello di centralismo burocratico. L'«organicità» non può essere che del centralismo democratico il quale è un «centralismo» in movimento, per cosa dire, cioè una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella comice solida dell'apparato di direzione che assicura la continuità e l'accumularsi regolare delle esperienze: esso è «organico» perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente cosi come avviene in pid ristretta scala nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberismo economico). Nei partiti che rappresentano gruppi socialmente subalterni l'elemento di stabilità è necessario per assicurare l'egemonia non a gruppi privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e oscillanti.

In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell'unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società Nazioni).

Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente aile necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell'apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell'apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l'organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l'elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l'azione politica concreta, l'attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceci intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non, esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.

Machiavelli. Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e di arte politica". Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo phi recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dace al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono Mette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l'internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d'altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D'altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l'iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano di pacifica e solidale divisione del lavoro.

Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all'inerzia in due fasi ben distinte: nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trova to isolato; nell'attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma). Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.

Machiavelli. Il concetto di «rivoluzione passiva» nel senso di Vincenzo Cuoco attribuita al primo periodo del Risorgimento italiano può essere messo in rapporto col concetto di «guerra di posizione» in confronto alla guerra manovrata? Cioè questi concetti si sono avuti dopo la Rivoluzione francese e il binomio Proudhon-Gioberti può essere giustificato col panico creato dal terrore del 1793 come il sorellismo col panico successivo aile stragi parigine del 1871 ? Cioè esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e rivoluzione passiva? O almeno esiste o può concepirsi tutto un periodo storico in cui i due concetti si debbano identificare, fino al punto in cui la guerra di posizione ridiventa guerra manovrata? E un giudizio « dinamico » che occorre dare sulle «Restaurazioni» che sarebbero una « astuzia della provvidenza» in senso vichiano. Un problema è questo: nella lotta Cavour-Mazzini, in cui Cavour è l'esponente della rivoluzione passiva - guerra di posizione e Mazzini dell'iniziativa popolare - guerra manovrata, non sono indispensabili ambedue nella stessa precisa misura? Tuttavia bisogna tener conto che mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè non fosse stato Mazzini) l'equilibrio risultante dal confluire delle due attività sarebbe stato diverso, piti favorevole al mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate e phi moderne. E poiché in ogni evento storico si verificano quasi sempre situazioni simili, è da vedere se non si possa trarre da ciò qualche principio generale di scienza e di acte politica. Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni. Cosi nel Risorgimento italiano si è visto come il passaggio al Cavourrismo [dopo il 1848] di sempre nuovi elementi del Partito d'Azione ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una parte e dall'altra impoverendo il movimento mazziniano (a questo processo appartengono anche le oscillazioni di Garibaldi ecc.). Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno che è stato chiamato pin tardi «trasformismo» e la cui irnportanza non è stata, pare, finora, messa nella luce dovuta come forma di sviluppo storico.

Insistere nello svolgimento del concetto che mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi tentennamenti (cosi a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica piemontese. E questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva essere compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni membro dell'opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo cosi si abbia un superamento reale, non era capito né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e dai teorici della rivoluzione passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia: in costoro la «incomprensione» teorica era l'espressione pratica delle necessità della «tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell'antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell'opposizione dialettica solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione. Certo è da considerare a questo punto la quistione del passaggio della lotta politica da «guerra manovrata» a «guerra di posizione», ciò che in Europa avvenne dopo il 1848 e che non fu compreso da Mazzini e dai mazziniani come invece fu compreso da qualche altro; lo stesso passaggio si ebbe dopo il 1871 ecc. La quistione era difficile da capire allora per uomini come il Mazzini, dato che le guerre militari non avevano dato il modello, ma anzi le dottrine militari si sviluppavano nel senso della guerra di movimento: sarà da vedere se in Pisacane, che del mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni in questo senso. (Sarà da vedere la letteratura politica sul 48 dovuta a studiosi della filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto da aspettarsi in questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio, furono esaminati solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.). Pisacane è tuttavia da vedere perché fu il solo che tentô di dare al Partito d'Azione un contenuto non solo formale, ma sostanziale di antitesi superatrice delle posizioni tradizionali. Né è da dire che per ottenere questi risultati storici fosse necessaria perentoriamente l'insurrezione armata popolare, come pensava Mazzini fino all'ossessione, cioè non realisticamente, ma da missionario religioso. L'intervento popolare che non fu possibile nella forma concentrata e simultanea dell'insurrezione non si ebbe neanche nella forma «diffusa» e capillare della pressione indiretta, ciò che invece era possibile e forse sarebbe stata la premessa indispensabile della prima forma. La forma concentrata o simultanea era resa impossibile dalla tecnica militare del tempo, ma solo in parte, cioè l'impossibilità esistette in quanto alla forma concentrata e simultanea non fu fatto precedere una preparazione politica ideologica di lunga lena, organicamente predisposta per risvegliare le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo scoppio simultaneo.

Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovô, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l'ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall'interno, furono i saggi del Pisacane, che perà non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.

Machiavelli. Il concetto di rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosamente dai due principî fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna formazione sodale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc. S'intende che questi principî devono prima essere svolti criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e f atalismo. Così devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti fondamentali in cui può distinguersi una « situazione» o un equilibrio di forze, col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico-militare. Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi, si preoccupa appunto di questo terzo momento: egli comprende, a differenza del Mazzini, tutta l'importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare dell'Impero absburgico, cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.

Altro elemento storico da richiamare è lo sviluppo del Cristianesimo nel seno dell'Impero Romano, così come il fenomeno attuale del Gandhismo in India e la teoria della non resistenza al male di Tolstoi che tanto si avvicinano alla prima fase dei Cristianesimo (prima dell'editto di Milano). il Gandhismo e il tolstoismo sono teorizzazioni ingenue e a tinta religiosa della «rivoluzione passiva». Sono anche da richiamare alcuni movimenti così detti «liquidazionisti» e le reazioni che suscitarono, in rapporto ai tempi e aile forme determinate di situazioni (specialmente del terzo momento).

Il punto di partenza dello studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è evidente che l'espressione del Cuoco a proposito della Rivoluzione Napoletana del 1799 non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente modificato e arricchito.

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Paradigmi di storia etico-politica. La Storia dell'Europa nel secolo xix pare sia il saggio di storia etico-politica che deve diventare il paradigma della storiografia crociana offerto alla cultura europea. Ma occorre tener conto degli altri saggi: Storia del regno di Napoli, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, e anche La rivoluzione napoletana del 1799 e Storia dell'età barocca in Italia. I piú tendenziosi e dimostrativi sono perô la Storia d'Europa e la Storia d'Italia. Per questi due saggi si pongono subito le domande: è possibile scrivere (concepire) una storia d'Europa nel secolo xix senza trattare organicamente della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche ? E può farsi una storia d'Italia nell'età moderna senza trattare delle lotte del Risorgimento? Ossia: è a caso o per una ragione tendenziosa che il Croce inizia le sue narrazioni dal 1815 e dal 1871 ? Cioè prescinde dal momento della latta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasta? Dal momento in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora nel fuoco e col ferro ? In cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma? E invece assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico ? Si pué dire pertanto che il libro sulla Storia d'Europa non è altro che un frammento di storia, l'aspetto «passivo» della grande rivoluzione che si iniziô in Francia nel 1789, traboccè nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una patente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione «riformistica» che duré fino al 1870. Si pane il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione-rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì cosi a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo, nel 1831, nel 1848. Ma nelle condizioni attuali il movimento corrispondente a quello del liberalismo moderato e conservatore non sarebbe phi precisamente il movimento fascista? Forse non è senza significato che nei primi anni del suo sviluppo il fascismo affermasse di riannodarsi alla tradizione della vecchia destra o destra storica. Potrebbe essere una delle tante manifestazioni paradossali della storia (un'astuzia della natura, per dirla vichianamente) questa per cui il Croce, mosso da preoccupazioni determinate, giungesse a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondarie, di ordine superficialmente romantico ma non perciô meno irritanti per la compostezza classica del Goethe. L'ipotesi ideologica potrebbe essere presentata in questi termini: si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l'intervento legislativo dello Stato e attraverso l'organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni phi o meno profonde per accentuare l'elemento «piano di produzione», verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciè toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l'appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l'unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell'industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le phi avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti. Che tale schema possa tradursi in pratica e in quale misura e in quali forme, ha un valore relativo: ciô che importa politicamente e ideologicamente è che esso puô avere ed ha realmente la virai di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la grande massa dei piccoli borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali. Questa ideologia servirebbe come elemento di una « guerra di posizione» nel campo economico (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento) internazionale, cosi come la «rivoluzione passiva» lo è nel campo politico. Nell'Europa dal 1789 al I870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 187o; nell'epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l'Italia), ideologico, per l'Europa, è il fascismo.

Passato e presente. La crisi. Lo studio degli avvenimenti che assumono il nome di crisi e che si prolungano in forma catastrofica dal 1929 ad oggi dovrà" attirare speciale attenzione. r) Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un'origine unica. Si tratta di un processo che ha moite manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Dunque: processo complesso, come in molti altri fenomeni, e non «fatto» unico che si ripete in varie forme per una causa ad origine unica. 2) Quando è cominciata la crisi? La domanda è legata alla prima. Trattandosi di uno svolgimento e non di un evento, la quistione è importante. Si puè dire che della crisi corne tale non vi è data d'inizio, ma solo di alcune «manifestazioni » phi clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L'autunno del 1929 col crack della borsa di New York è per alcuni l'inizio della crisi e si capisce per quelli che nell'«americanismo» vogliono trovar l'origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell'autunno 1929 in America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, niente altro. Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili. (Ciò mostrerebbe che è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione). 3) La crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè nelle posizioni di classe rispettive, o in altri fatti ? Legislazioni, torbidi ecc. ? Certo pare dimostrabile che la crisi ha origini « tecniche» cioè nei rapporti rispettivi di classe ma che ai suoi inizi, le prime manifestazioni o previsioni dettero luogo a conflitti di vario genere e a interventi legislativi, che misero piú in luce la «crisi» stessa, non la determinarono, o ne aumentarono alcuni fattori. Questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i tre primi punti da chiarire con esattezza.

Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale, per fatti apparentemente complessi (ma meglio sarebbe dire «lambiccati»). Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre piú sviluppata nel senso del «nazionalismo», «del bastare a se stessi» ecc. Uno dei caratteri piú appariscenti della «attuale crisi» è niente altro che l'esasperazione dell'elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell'economia: contingentamenti, clearing, restrizione al commercio delle divise, commercio bilanciato tra due soli Stati ecc. Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il piú esatto, che la «crisi» non è altro che l'intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l'intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del capitalismo è stata una «continua crisi», se cosi si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di «crisi», che sono piti gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano. Dato questo quadro generale, si può studiare il fenomeno nei diversi piani e aspetti: monetario, finanziario, produttivo, del commercio interno, del commercio internazionale ecc. e non è detto che ognuno di questi aspetti, data la divisione internazionale del lavoro e delle funzioni, nei varii paesi non sia apparso prevalente o manifestazione massima. Ma il problema fondamentale è quello produttivo; e, nella produzione, lo squilibrio tra industrie progressive (nelle quali il capitale costante è andato aumentando) e industrie stazionarie (dove conta molto la mano d'opera immediata). Si comprende che avvenendo anche nel campo internazionale una stratificazione tra industrie progressive e stazionarie, i paesi dove le industrie progressive sovrabbondano hanno sentito piú la crisi ecc. Onde illusioni varie dipendenti dal fatto che non si comprende che il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe «crisi». (Per tutti questi argomenti sarà da vedere la letteratura della Società delle Nazioni, dei suoi esperti e della sua commissione finanziaria, che servirà almeno ad avere dinanzi tutto il materiale sulla quistione, cosi anche le pubblicazioni delle piú importanti riviste internazionali e delle Camere dei Deputati).

La moneta e l'oro. La base aurea della moneta è resa necessaria dal commercio internazionale e dal fatto che esistono e operano le divisioni nazionali (ciò che porta a fatti tecnici particolari di questo campo da cui non si può prescindere: tra i fatti c'è la rapidità di circolazione che non è un piccolo fatto economico). Dato che le merci si scambiano con le merci, in tutti i campi, la quistione è se questo fatto, innegabile, avvenga in breve o lungo tempo e se questa differenza di tempo abbia la sua importanza. Dato che le merci si scambiano con le merci (intesi tra le merci i servizi) è evidente l'importanza del «credito», cioè il fatto che una massa di merci o servizi fondamentali, che indicano cioè un completo ciclo commerciale, producono dei titoli di scambio e che tali titoli dovrebbero mantenersi uguali in ogni momento (di pari potere di scambio) pena l'arresto degli scambi. E vero che le merci si scambiano con le merci, ma « astrattamente», cioè gli attori dello scambio sono diversi (non c'è il «baratto» individuale cioè, e ciò appunto accelera il movimento). Perciò se è necessario che nell'interno di uno Stato la moneta sia stabile, tanto piú necessario appare sia stabile la moneta che serve agli scambi internazionali, in cui «gli attori reali» scompaiono dietro il fenomeno. Quando in uno Stato la moneta varia (inflazione o deflazione) avviene una nuova stratificazione di classi nel paese stesso, ma quando varia una moneta internazionale (esempio la sterlina, e, meno, il dollaro ecc.) avviene una nuova gerarchia fra gli Stati, ciò che è piti complesso e porta ad arresto nel commercio (e spesso a guerre), cioè c'è passaggio «gratuito» di merci e servizi tra un paese e l'altro e non solo tra una classe e l'altra della popolazione. La stabilità della moneta è una rivendicazione, all'interno, di alcune classi e, all'estero (per le monete internazionali, per cui si sono presi gli impegni), di tutti i commercianti; ma perché esse variano ? Le ragioni sono molte, certamente: r) perché lo Stato spende troppo, cioè non vuol far pagare le sue spese a certe classi, direttamente, ma indirettamente ad altre e, se è possibile, a paesi stranieri; 2) perché non si vuole diminuire un costo «direttamente» (esempio il salario) ma so lo indirettamente e in un tempo prolungato, evitando attriti pericolosi ecc. In ogni caso, anche gli effetti monetari sono dovuti all'opposizione dei gruppi sociali, che bisogna intendere nel senso non sempre del paese stesso dove il fatto avviene ma di un paese antagonista.

E questo un principio poco approfondito e tuttavia capitale per la comprensione della storia: che un paese sia distrutto dalle invasioni «straniere» o barbariche non vuol dire che la storia di quel paese non è inclusa nella lotta di gruppi sociali. Perché è avvenuta l'invasione ? Perché quel movimento di popolazione ecc. ? Come, in un certo senso, in uno Stato, la storia è storia delle classi dirigenti, cosi, nel mondo, la storia è storia degli. Stati egemoni. La storia degli Stati subalterni si spiega con la storia degli Stati egemoni. La caduta dell'Impero Romano si spiega collo svolgimento della vita dell'Impero Romano stesso, ma questo dice perché «mancavano» certe forze, cioè è una storia negativa e perciò lascia insoddisfatti. La storia della caduta dell'Impero Romano è da ricercare nello sviluppo delle popolazioni «barbariche» e anche oltre, perché spesso i movimenti delle popolazioni barbariche erano (conseguenze) «meccaniche» (cioè poco conosciute) di altro movimento affatto sconosciuto. Ecco perché la caduta dell'Impero Romano dà luogo a «brani oratorii» e viene presentata come un enigma: i) perché non si vuole riconoscere che le forze decisive della storia mondiale non erano allora nell'Impero Romano (fossero pure forze primitive); 2) perché di tali forze mancano i documenti storici. Se c'è enigma, non si tratta di cose «inconoscibili» ma semplicemente «sconosciute» per mancanza di documenti. Rimane da vedere la parte negativa: «perché l'Impero si fece battere ?», ma appunto lo studio delle forze negative è quello che soddisfa di meno e a ragione, perché di per sé presuppone l'esistenza di forze positive e non si vuol mai confessare di non conoscere queste. Nella quistione [dell'impostazione storica della caduta] dell'Impero Romano entrano in gioco anche elementi ideologici, di boria, che sono tutt'altro che trascurabili.

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Ecrit par dcollin le Mardi 4 Septembre 2012, 22:30 dans "Philosophie italienne" Lu 5113 fois. Version imprimable

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