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La conoscenza storica come tutta la conoscienza

B. Croce: La Storia come pensiero e come azione, V

Non basta dire che la storia è il giudizio storico, ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz'altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e predi­cato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giu­dica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepi­scono nel mondo della realtà. È giudizio storico anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta sensazione): per esem­pio, che l'oggetto che mi vedo innanzi al piede è un sasso, e che esso non volera via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o col bastone; perché il sasso è veramente un processo in corso, che resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia. 

Ma neppur qui ci si può arrestare, rinunziando a svolgere l'ulteriore conseguenza: che il giudizio storico non è già un ordine di conoscenze, ma è la conoscenza senz'altro, la forma che tutto riempie ed esaurisce il campo conoscitivo, non la­sciando posto per altro. 

In effetto, ogni concreto conoscere non può non essere, al pari del giudizio storico, legato alla vita, ossia all'azione, momento della sospensione o aspettazione di questa, rivolto a rimuovere, come si è detto, l'ostacolo che incontra quando non scorge chiara la situazione da cui essa dovra prorompere nella sua determinatezza e particolarità. Un conoscere per il conoscere, non solo, diversamente da quel che taluni immagi­nano, non ha punto dell'aristocratico né del sublime, esem­plato come è in effetto sul passatempo idiota degli idioti e dei momenti di idiozia che sono in ognuno di noi, ma realmente non accade mai in quanto intrinsecamente è impossibile, ve­nendogli meno con lo stimolo della pratica la materia stessa e il fine del conoscere. E quegli intellettuali che disegnano come via di salvazione il distacco dell'artista o del pensatore dal mondo che lo attornia, la sua deliberata impartecipazione ai volgari contrasti pratici, — volgari in quanto pratici, — non si avvedono di disegnare nient'altro che la morte dell'intelletto. In una vita paradisiaca, senza lavoro e senza travaglio, in cui non si urti in ostacoli da superare, neppur si pensa, perché è venuto meno ogni motivo di pensare e neppure, propriamente, si contempla, perché la contemplazione attiva e poetica chiude in sé un mondo di pratiche lotte e di affetti.

Né ci vogliono sforzi per dimostrare che anche quella che si chiama la scienza naturale, col suo complemento e stru­mento che è la matematica, si fonda sui bisogni pratici del vivere, ed è indirizzata a soddisfarli; perché questa persua­sione fu già indotta negli animi dal suo grande banditore alla soglia dei nuovi tempi, Francesco Bacone. Ma in qual punto del suo processo la scienza naturale esercita quest'ufficio utile, facendosi vera e propria conoscenza? Non di certo quando compie astrazioni, costruisce classi, stabilisce rapporti tra le classi che chiama leggi, dà formola matematica a queste leggi, e simili. Tutti cotesti sono lavori di approccio, indirizzati a serbare le conoscenze acquistate o a procacciarne di nuove, ma non sono l'atto del conoscere. Si può possedere raccolta nei libri o pronta nella memoria tutta la materia medica, tutte le specie e sottospecie delle malattie con le loro caratteristi­che; e con ciò, possedendosi «bien Galien, mais nullement le malade», come avrebbe detto il Montaigne, si conoscerà tanto poco quanto poco o nulla conosce di storia chi possiede una delle tante storie universali che sono state compilate, o ne ha ammobiliato la memoria, fino a quando non giunga il momento in cui, sotto lo stimolo degli eventi, quelle conoscenze disciolgono la loro immota rigidità e il pensiero pensa una situazione politica o altra che sia; e similmente l'esperto di medicina, fino a quando non venga al punto di aver davanti un malato e d'intuire e intendere il male di cui propriamente quel malato, e solo quello, soffre a quel modo e in quelle condizioni, e che non è più uno schema di malattia, ma la concreta e individua realtà di una malattia. Le scienze naturali muovono dai casi individuali, che la mente non ancora intende o non intende a pieno, ed eseguono la lunga e compli­cata serie dei loro lavori per riportare la mente così preparata innanzi a quel casi, e lasciarla in diretta comunicazione con essi sicché ne formi il giudizio proprio.

Alla teoria che ogni genuina conoscenza è conoscenza storica non fa dunque vero contrasto e opposizione la scienza naturale, la quale, al pari della storia, lavora nel mondo e nel basso mondo, ma la filosofia o, se si vuole, la tradizionale idea di una filosofia che abbia gli occhi rivolti al cielo e dal cielo attinga o aspetti la suprema verità. Questa divisione di cielo e terra, questa concezione dualistica di una realtà che trascende la realtà, di una metafisica sulla fisica, questa contemplazione del concetto senza o fuori del giudizio, le dà il carattere suo proprio, che è sempre il medesimo, comunque si denomini la realtà trascendente, Dio o Materia, Idea o Volontà, e sempre che si suppone che le resti sotto o di contro una realtà infe­riore o una realtà meramente fenomenica.

 

Ma il pensiero storico ha giocato a questa rispettabile filosofia trascendente un cattivo tiro, corne alla sua sorella la trascendente religione, di cui essa è la forma ragionata o teo­logica: il tiro di storicizzarla, interpretando tutti i suoi con­cetti e le sue dottrine e le sue dispute e le sue stesse sfiduciate rinunzie scettiche come fatti storici e storiche affermazioni, nascenti da certi bisogni da essa in parte soddisfatti e in parte lasciati insoddisfatti; e a questo modo le ha reso la giustizia che per il suo lungo dominare (il quale era insieme un servire l'umana società) le si doveva, e ha scritto il suo onesto necro­logio.

 

Si può dire che, con la critica storica della filosofia tra­scendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia: la filoso­fia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. Singolare vicenda della storia, che a lungo stata considerata e trattata come la piû umile forma del cono­scere, e per contrasto la filosofia come la più alta, ed ora par che non solo superi questa, ma la discacci. Senonché la cosid­detta storia, che se ne stava relegata all'infimo posto, non era punto storia, ma cronaca o erudizione, e si atteneva al­l'esterno, lavorando su testimonianze; e l'altra, che ora è as­surta, è il pensiero storico, unica e integrale forma del cono­scere. Quando la vecchia filosofia metafisica volle porgere una mano soccorrevole alla storia per tirarla in su, non la stese ad essa ma alla cronaca e, non potendo elevarla a storia perché ciò le era precluso dal suo carattere metafisico, le sovrappose una «filosofia della storia», ossia quel modo di escogitazione o indovinamento, del quale si è di sopra discorso, circa il divino programma che la storia eseguirebbe come chi si adopri a copiare più o men ben un modello. La «filosofia della sto­ria» fu effetto di un'impotenza mentale, o, per dirla con frase vichiana, di una «inopia della mente» al pari del mito.

 

Certo, tra le svariate forme letterarie della didascalica si vedono produzioni che si considerano filosofiche e non stori­che, perché sembrano aggirarsi intorno ad astratti concetti, purgati di ogni elemento intuitivo. Ma se quelle trattazioni non si aggirano nel vuoto, se hanno pienezza e concretezza di giudizi, l'elemento intuitivo c'è in esse sempre, sebbene latente all'occhio del volgo, che crede di riconoscerlo solo dove gli si mostra come incrostazione di cronachismo o di erudi­zione. C'è, per il fatto stesso che i filosofemi, che vi si formu­lano, rispondono ad esigenze di portar luce su particolari con­dizioni storiche, la cui conoscenza li rischiara non meno di quello che ne sia rischiarata. Stavo per dire, cogliendo un esempio sul vivo, che anche le dilucidazioni metodologiche, che qui vengo dando, non sono veramente intelligibili se non col rendere mentalmente esplicito il riferimento (di solito da me fatto in modo soltanto implicito) alle condizioni politiche, morali ed intellettuali dei giorni nostri, delle quali concorrono a dare la descrizione e il giudizio.

 

Rimangono gli specialisti o professori di filosofia, il cui ufficio par che sia di far da contrappeso ai filologisti, ossia agli eruditi che si atteggiano a storici, collocando accanto ai bruti fatti, da questi allineati e spacciati per storie, un allineamento di astratte idee, e completando cosi un'ignoranza mercé di un'altra ignoranza; con che non si va molto innanzi. Sono essi i naturali conservatori della filosofia trascendente, a segno che anche quando professano a parole l'unità della filosofia e della storia, la smentiscono col fatto, o tutt'al più discendono di tanto in tanto dal loro sopramondo per pronunziare qualche vieta generalità o qualche falsità storica. Ma quanto più si affinerà il senso della storicità e si diffonderà il modo storico di pensare, gli storici filologisti saranno rinviati alla pura e semplice e utile filologia, e i filosofi di professione potranno essere, con ogni garbo, ringraziati e congedati, perché la filo­sofia ha trovato nell'alta storiografia quella condizione di vita operosa che in loro aveva cercato invano. Filosofavano essi a freddo, senza sollecitazione di passioni ed interessi, «senza occasione»; laddove ogni seria storiografia e ogni seria filoso­fia dev'essere storiografia filosofia «di occasione», come della genuina poesia diceva il Goethe: questa passionalmente, e l'al­tra praticamente e moralmente motivata.

Éléments de traduction

Il ne suffit pas de dire que l’histoire est le jugement historique, mais il faut ajouter que tout jugement est historique, ou encore histoire sans rien d’autre. Si le jugement est un rapport sujet-prédicat, le sujet, autrement dit le fait, quel qu’il soit, dont on juge, est toujours un fait historique, quelque chose qui devient, un procès en cous cours, parce que des faits immobiles ne trouvent ni ne se conçoivent dans le monde de la réalité. Est jugement historique même la plus évidente perception qui contient un jugement (si elle ne jugeait pas elle ne serait pas même une perception mais une aveugle et muette sensation) : par exemple que l’objet que je vois devant mes pieds est une pierre, et qu’elle ne s’envolera pas d’elle-même comme un oisillon au bruit de mes pas, d’où il conviendra que je l’écarte avec le pied ou avec un bâton ; parce que la pierre est vraiment un procès un cours, qui résiste aux forces de désagrégation ou qui leur cède seulement peu à peu, et mon jugement se réfère à un aspect de son histoire.

Mais ici pourtant on ne peut s’arrêter, en renonçant à en tirer les conséquences ultérieures qui s’en suivent : que le jugement historique n’est pas seulement un ordre de connaissance mais est la connaissance tout court, la forme que tout remplit et qui épuise le champ cognitif, ne laissant pas place pour autre chose.

En effet, chaque connaître concret ne peut pas ne pas être, tout comme le jugement historique, lié à la vie, c’est-à-dire à l’action, moment de la suspension ou de l’attente de celle-ci, destiné à repousser, comme on l’a dit, l’obstacle qu’elle rencontre quand la situation n’apparaît pas claire, dont cette action devra se dégager dans sa détermination et sa particularité. Un connaître pour connaître, non seulement, à la différence de ce que certains imaginent n’a pas quelque chose d’aristocratique ni de sublime, fait comme il est en effet à l’exemple des passe-temps idiots des idiots et des moments d’idiotie qu’il se rencontre chez chacun de nous, mais encore un tel connaître pour connaître n’arrive jamais en tant qu’il est intrinsèquement impossible, car en viennent à manquer, avec le stimulant de la pratique la matière même et la finalité du connaître. Et ces intellectuels qui désignent comme voie du salut la distance de l’artiste ou du penseur à l’égard du monde qui l’entoure, sa non-participation délibérée aux conflits vulgaires du monde – vulgaires en tant qu’ils sont pratique – ne s’avisent pas qu’ils ne désignent ainsi rien d’autre que la mort de l’intellect. Dans une vie paradisiaque, sans travail et sans effort, dans laquelle on ne se heurte pas à des obstacles à surmonter, on ne pense pas non plus, parce qu’il n’y a même pas de motifs de penser et non plus on ne saurait vraiment contempler parce que la contemplation active et poétique renferme en elle-même un monde de lutte pratiques et d’affects.

Et nous ne voulons pas faire des efforts pour démontrer que même ce que l’on appelle science naturelle, avec son instrument et complément qu’est la mathématique, se fonde sur les besoins pratiques du vivre et se trouve dirigée vers leur satisfaction ; parce que la conviction de cette vérité fut déjà induite dans les esprits par son grand héraut au seuil des temps modernes, Francis Bacon. Mais en quel point de son processus la science naturelle exerce-t-elle son office utile, en se faisant véritablement connaissance ? Certes pas quand elle représente des abstractions, quand elle construit des classes, établit des rapports entre les classes qu’elle nomme « lois », donne des formules mathématiques de ces lois, et toutes autres choses semblables. Tout ceci, ce sont des travaux d’approche destinées à conserver les connaissances acquises ou à en approcher de nouvelles, mais ce n’est pas l’acte de connaître. On peut posséder, recueillie dans des livres ou prête dans la mémoire, toute la matière médicale, toutes les espèces ou sous-espèces de maladies avec leurs caractéristiques, possédant ainsi « bien Galien mais nullement le malade » comme aurait dit Montaigne, de même connaîtrait si peu ou presque en histoire qui possèderait une des si nombreuses histoires universelles qui ont été compilées ou qui en aurait meublé sa mémoire, tant qu’il n’aurait pas atteint le moment où, sous le stimulus des évènements ces connaissances défont leur rigidité immobile et la pensée pense une situation politique ou une autre quelle qu’elle soit. ; et semblablement, l’expert en médecine, tant qu’il n’est pas arrivé au point où est venu devant lui un malade et qu’il n’a pas eu à sentir et comprendre le mal dont ce malade, et seulement celui-là, souffre véritablement, de cette manière et dans ces conditions, et que ce n’est plus un schéma de maladie, mais la réalité individuelle et concrète d’une maladie. Les sciences naturelles se meuvent à partir des cas individuels que l’esprit ne peut pas encore saisir ou ne comprend pas encore pleinement et exécutent la série longue et compliquée de leurs travaux pour ramener l’esprit ainsi préparé devant ces cas et le laisser en communication directe avec eux de son sorte qu’il s’en forme son jugement propre.

À la théorie que toute connaissance authentique est connaissance historique, la science naturelle ne fait donc pas véritablement un contraste et une opposition, laquelle science naturelle, à l’égal de l’histoire, travaille dans le monde et dans ce bas monde, mais c’est à la philosophie qu’elle s’oppose ou, si on veut, l’idée traditionnelle d’une philosophie qui a les yeux rivés vers le ciel et du ciel atteint ou attend la suprême vérité. Cette division du ciel et de la terre, cette conception dualiste d’une réalité qui transcende la réalité, d’une métaphysique au-dessus de la physique, cette contemplation du concept sans ou hors du jugement, lui donne son caractère propre qui est toujours, de quelque manière qu’on nomme la réalité transcendante, Dieu ou Matière, Idée ou Volonté, et que toujours on suppose qu’ils restent au-dessus et contre une réalité inférieure ou une réalité purement phénoménale.

Mais la pensée historique a joué à cette respectable phi transcendantale un mauvais tour, comme à sa petite sœur, la religion transcendante, dont elle est la forme rationalisée ou théologique : le tour de l’historiciser en interprétant tous ses concepts et ses doctrines, ses disputes et même ses méfiantes renonciations sceptiques comme des faits historiques ou des affirmations historiques, naissant de certains besoins qu’elle satisfait partiellement et laisse partiellement insatisfaits ; et, de cette manière, elle lui a rendu la justice que, pour sa longue domination (laquelle était en même temps une manière de servir la société humaine), elle lui devait et elle a écrit son honnête nécrologie.

On peut dire que, avec la critique historique de la philosophie transcendante, la philosophie elle-même, dans son autonomie, est morte, parce que sa prétention d’autonomie était fondée précisément dans son caractère métaphysique. Ce qui en tient lieu, ce n’est plus la philosophie mais l’histoire ou, ce qui revient à dire la même chose, la philosophie en tant qu’histoire et l’histoire en tant que philosophie : la philosophie-histoire qui a pour principe l’identité de l’universel et de l’individuel, de l’intellect et de l’intuition, et déclare arbitraire toute distance introduite entre les deux éléments, lesquels ne forment vraiment qu’un. Singulière entreprise de l’histoire qui a longtemps été considérée et traitée comme la plus humble des formes de la connaissance, par contraste avec la philosophie qui a été considérée comme la plus haute et qui aujourd’hui non seulement surpasse celle-ci, mais la chasse. Cependant, la soi-disant histoire, qui se tenait reléguée à la place la plus petite, n’était précisément pas histoire mais chronique ou érudition, et elle se tenait à l’extérieur, travaillant sur les témoignages ; et l’autre histoire, qui s’est maintenant élevée, est le penser historique, l’unique et intégrale forme de connaissance. Quand la vieille philosophie métaphysique veut donner une main secourable à l’histoire pour la tirer vers le haut, ce n’est pas à elle qu’elle la tend mais à la chronique, et, ne pouvant pas l’élever à l’histoire, parce que ceci lui est exclu en raison de son caractère métaphysique, elle lui superpose une « philosophie de l’histoire », c’est-à-dire ce mode d’invention et de divination, dont on a parlé plus haut, à propos du programme divin que l’histoire exécuterait comme quelqu’un qui s’emploie à copier plus ou moins bien un modèle. La « philosophie de l’histoire » fut en effet d’une impotence mentale, ou pour le dire avec une phrase vichienne, d’une « indigence mentale » égale à celle du mythe.

Certes, entre les formes littéraires variées de la didactique, on voit des productions qui se considèrent comme philosophiques et non historiques, parce qu’elles semblent s’attarder à des concepts abstraits, purgés de tout élément intuitif. Mais si ces développements ne planent pas dans le vide, s’ils ont la plénitude et la concrétude des jugements, l’élément intuitif est toujours en eux, même si c’est de manière latente à l’œil du vulgaire, qui croit le reconnaître seulement s’il montre avec une incrustation de chronique ou d’érudition. Il y est, par le fait même que les philosophèmes qui y sont formulés répondent aux exigences d’apporter une lumière sur les conditions historiques particulières dont la connaissance les éclaire tout autant qu’elle est éclairée par elles. J’allais dire, en cueillant un exemple sur le vif, que même les élucidations méthodologiques qui je suis en train de donner ne sont vraiment intelligibles sinon en rendant mentalement explicite la référence (ce que d’habitude je fais seulement de manière implicite) aux conditions politiques, morales et intellectuelles de nos jours, dont ils concourent à donner la description et le jugement.

Restent les spécialistes ou professeurs de phi, dont l’office semble être de faire contrepoids aux philologues, c’est-à-dire aux érudits qui se donnent pour des historiens, s’attachant aux faits bruts alignés et découpés et présentés comme des histoires un alignement d’idées abstraites, complétant ainsi une ignorance par une autre ignorance ; avec quoi on ne va pas beaucoup plus avant. Ce sont eux les conservateurs naturels de la philosophie transcendante, pour signe il en est que même quand ils professent en parole l’unité de l’histoire et de la philosophie, ils la démentent en fait, ou, tout au plus, ils descendent de temps à autre de leur super-monde pour prononcer quelque banale généralité ou quelle fausseté historique. Mais plus on affinera le sens de l’historicité et on défendra le mode historique de penser, les historiens philologues seront renvoyés à la pure et simple et utile philologie et les philosophes seront remerciés et congédiés parce que la philosophie a trouvé dans la haute historiographie ces conditions de vie laborieuse qu’elle avait cherchées en vain chez eux. Eux, ils philosophaient à froid, sans la sollicitation des passions et des intérêts, sans « occasion », là où toute historiographie sérieuse et toute philosophie sérieuse doivent être historiographie et philosophie « d’occasion », comme Goethe le disait de l’authentique poésie : celle-là doit être motivée passionnément et celle-ci doit l’être pratiquement et moralement.

 

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Ecrit par dcollin le Mardi 9 Avril 2013, 19:31 dans "Philosophie italienne" Lu 3490 fois. Version imprimable

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