Per una critica della filosofia politica
Sommaire
- Impostazione del problema
- La contraddizione fondamentale della teoria della giustizia di Rawls
- La giustificazione procedurale cade in uno circolo vizioso
- Il principio di differenza è indeterminato
- Non si può fare a meno di una concezione sostanziale del bene
- Dopo Rawls
- Alcuni ragioni del crollo del marxismo
- Un comunismo non utopico
Impostazione del problema
Che cosa possono fare i filosofi in materia di politica? Che cosa la politica ha a che fare con la filosofia? È così che interpreto l’interrogazione a cui ci invita la rivista Koinè.
E questo si può ancora tradurre diversamente: qual è lo status della filosofia politica?
L’espressione “filosofia politica” è problematica perché sembra un pleonasmo: la filosofia, fin dalla sua nascita in Grecia, fu politica. La filosofia di Platone è, da qualunque parte la si guardi, una filosofia politica. Nel Gorgia, Socrate lo dice chiaramente: “Sono uno fra i rari Ateniesi, per non dire il solo, che si dedichi all’arte politica” (521d). Ora, secondo Whitehead, “la filosofia occidentale non è altro che un seguito di note a pie’ di pagina ai dialoghi di Platone”; e, di fatto, non c’è un solo grande filosofo per cui la dimensione politica non sia fondamentale. Secondo Aristotele, la politica è la “scienza architettonica” che struttura l’etica.
Benché in questo componimento, si tenda a screditare la vita politica, la più grande opera di Agostino – La Città di Dio – è certamente la sua “filosofia politica”. Se la dimensione politica è evidente in Spinoza, Rousseau, Kant e Hegel, si può osservare che anche un filosofo come Descartes, pur aggirando con cura ogni esplicita presa di posizione nel campo politico (larvatus prodeo!), propone una filosofia le cui implicazioni politiche sono importanti.
Ogni filosofia è politica nella sua essenza, poiché, ponendo la domanda centrale della possibilità e dello statuto della verità, essa definisce le condizioni dell’enunciazione vera e, dunque, le condizioni e le forme del dibattito pubblico, anche se questo dibattito è limitato o deve limitarsi alla comunità dei dotti. La filosofia di Platone, nel suo feroce conflitto contro i sofisti e contro la tesi attribuita a Protagora secondo cui “l’uomo è la misura d’ogni cosa”, è una vera e propria battaglia filosofica, e perciò tutti i dialoghi di Platone sono politici e non solo La Repubblica, Il Politico, o Le leggi. Per le stesse ragioni, ma in senso inverso, la metafisica di Aristotele (con la teoria della conoscenza che è congiunta ad essa) esplicita ampiamente il giudizio che egli ha sul migliore dei governi, ed in particolare l’esigenza che esso venga composto largamente dal ceto medio.
Tutto un altro ordine di idee ha Descartes quando, nella sesta parte del Discorso sul metodo,annuncia che la nuova scienza che egli vuole fondare sarà principalmente utile e permetterà all'uomo di “diventare maestro e padrone della natura”, indicando così il programma politico della modernità.
Per quanto non si possa sopprimere ogni distinzione fra i diversi rami della filosofia, si può invece contestare la kantiana frattura fra la “ragion pura” nel suo uso teorico e la “ragion pratica”. Le norme della vita buona e della politica non scaturiscono, in modo univoco, dalla conoscenza che possiamo avere della nostra realtà e della realtà del mondo in cui viviamo. La prudenza pratica è chiamata al soccorso di una teoria che viene meno, anche se per uno spinozista, contestando l’esistenza di una facoltà della volontà diversa dall’intelletto: ciò che devo fare è sempre l’effetto adeguato a ciò che capisco, e così, in concreto, non posso concepire compiutamente la concatenazione delle idee così come esse sono prodotte “in Iddio”; ne consegue che, molto spesso, l’agire dipende dall’immaginazione e dall’opinione, più che direttamente dalla ragione.
Da questo presupposto, in qualsiasi modo si affronti il problema, si deve ammettere che ci sono buone ragioni per distinguere la filosofia politica dalla filosofia in genere, così come si può anche distinguere la riflessione normativa dalla teoria generale della vita sociale.
Col marxismo da un lato e lo sviluppo della scienza sociale dall’altro, il Novecento ha visto prima la relativa cancellazione della dimensione morale della filosofia e poi di quella politica. La conoscenza scientifica della società umana e quella della mente umana, non permetterebbero infatti di agire sull’uomo come si agisce sulle cose?
Michel Foucault conclude l’ultimo capitolo di Le parole e le cose, capitolo consacrato alle scienze umane, evocando la cancellazione dell’uomo “come sull’orlo del mare un volto di sabbia”. Se i comportamenti umani e le forme dell’organizzazione sociale sono di competenza della positività delle scienze umane, è la dimensione normativa del pensiero che è messa fuorigioco. Dal suo punto di vista, il marxismo classico conduce a una conclusione dello stesso genere. Le “leggi della storia” si impongono qualunque sia la volontà umana e i marxisti si difendono generalmente dicendo di non lottare contro il capitalismo per ragioni morali. Il capitalismo, a suo tempo, era “nel senso della storia”. I marxisti costatano che il tempo del capitalismo è ormai obiettivamente terminato e che esso deve lasciare il posto ad un migliore modo di produzione. Da qualsiasi lato la si guardi, l’epoca è “al di là del bene e del male”.
Il ritorno in auge della filosofia politica è ben chiaro dagli anni settanta, prendendo in contro-piede la filosofia delle scienza, il marxismo e la psicoanalisi, che sembravano aver dominato a tutto campo nella ricerca della Filosofia nel Novecento.
Nello stesso periodo, l’ultimo erede della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, effettua una svolta, che lo allontana definitivamente da Marx e dalla teoria critica e torna ad un “kantismo” assai insipido e adattato al nuovo oggetto della riflessione habermasiana, ossia la «democrazia post-nazionale» che starebbe realizzandosi nell’Unione Europea. Hanno seguito questa via anche i filosofi italiani come Salvatore Veca oppure quelli Francesi come Jean-Marc Ferry (discepolo di Habermas). In questo dibattito, si deve anche segnalare l’importante ruolo giocato dal’economista Amartya Sen.
Partendo dalla filosofia di John Rawls, di seguito dimostrerò che il tentativo di costruire una teoria politica pura, indipendente da ogni concezione sostanziale di vita buona, è una chimera. In secondo luogo, cercherò di mettere a fuoco i vicoli ciechi del marxismo classico, che conducono ad un malinteso del posto proprio della teoria politica – la quale non scaturisce automaticamente dall’analisi dello sfruttamento capitalistico. Infine, sosterrò la necessità di tornare ad una concezione globale della filosofia.
La contraddizione fondamentale della teoria della giustizia di Rawls
Per capire bene l’argomento in questione, cominciamo con la Teoria della Giustizia di Rawls (d’ora in poi TG). Rawls cerca di stabilire i princìpi fondamentali di una società bene ordinata partendo dal fatto del pluralismo. Per questo scopo si devono scartare tutte le concezioni globali del bene, poiché queste sono – più o meno – sempre legate ad une fede religiosa o ad un pensiero metafisico che le rendono inutilizzabili per la fondazione dei princìpi di una società pluralistica. I princìpi della giustizia non possono implicare, in un modo o nell’altro, una concezione determinata del senso dell’esistenza umana. Debbono essere il più neutrali possibile, se vogliono essere oggetto di un consenso stabile per inserirsi in un gruppo di valori politici fondamentali.
Rawls vuole dimostrare che si può trovare una procedura imparziale che dia una giustificazione dei principi di giustizia. Una TG in grado di essere l’oggetto di un consenso per intersezione non può essere che procedurale se si vuole evitare ogni contestazione, che nascerebbe inevitabilmente, poiché diverse concezioni del bene potrebbero essere in contrasto. Rawls non è il solo a pensarla così: la filosofia del diritto e la filosofia morale contemporanee sono, fondamentalmente, filosofie procedurali, che concepiscono la democrazia stessa come una procedura che permette la coabitazione di individui egoisti in una società regolata dalle leggi del mercato. Il mercato, come procedura cieca d’allocazione delle risorse viene persino presentato come il prototipo del sistema “neutrale” in riferimento ai valori.
La giustificazione procedurale cade in uno circolo vizioso
La giustificazione procedurale non è un ornamento superfluo nei principi di giustizia di Rawls; essa mira a dimostrare che si può emancipare la TG da ogni concezione del bene rendendola compatibile con l’ambito liberale borghese nel quale si esplica. Per Rawls è un argomento importante: la TG deve essere compatibile con le società democratiche esistenti, cioè, per meglio dire, con le società capitalistiche alla fine degli anni Sessanta.
I princìpi di giustizia, il principio d’uguale libertà per tutti ed il principio di differenza – cioè il principio che giustifica le disuguaglianze, quando sono a vantaggio di ciascuno e a profitto, in primo luogo, dei più avvantaggiati – sarebbero, secondo Rawls, i princìpi da cui scaturiscono individui razionali, posti sotto il “velo d’ignoranza” e usando solo la strategia del MAXIMIN, proveniente dalla teoria dei giochi.
La procedura del velo d’ignoranza è concepita come imparziale, come una regola di gioco. Dunque suppone che i legislatori, posti sotto il velo d’ignoranza, abbiano già accettato di partecipare al gioco! I princìpi di giustizia scaturiscono da una procedura imparziale, ci dice Rawls. Tuttavia, la giustizia e l’imparzialità non sono due nozioni estranee fra loro. L’imparzialità è già parte dell’idea di giustizia, una idea molto generale, ridotta alla sua più semplice espressione, ma comunque un’idea della giustizia; il che vuol dire che tutti gli individui debbono essere trattati allo stesso modo. Presuppone dunque l’eguaglianza dei diritti. In altre parole, non si può concepire una procedura capace di stabilire i princìpi di base di una società giusta senza avere già una certa concezione della giustizia, anche solo riassunta dalla libertà e dall’uguaglianza. È dunque naturale che la procedura del velo d’ignoranza produca il principio d’uguale libertà per tutti, dato che questo principio è il fondamento della costruzione intellettuale di Rawls. Un individuo, partecipando sotto il “velo d’ignoranza” all’elaborazione dei princìpi di una società giusta, ha già una certa concezione del buono. Per esempio, il Callicle del dialogo di Platone non accetterebbe la regola del gioco di Rawls. Socrate non invalida le tesi di Callicle utilizzando una procedura, ma dimostrando che egli non sa ciò che dice, perché ha abbandonato il terreno del vero e del bene. In altre parole, la TG di Rawls, pretendendo di appoggiarsi sulla pura procedura, assomiglia al barone di Münchausen che voleva uscire dalla palude tirando il proprio codino.
C’è un secondo problema: Rawls critica severamente l’utilitarismo, perché questa dottrina non potrebbe produrre i fondamenti politici di una società bene ordinata. In effetti, l’utilitarismo, ammettendo una dottrina del sacrificio di alcuni individui (se questo sacrificio è utile alla massimizzazione della felicità comune) rinuncia, allo stesso tempo, a trattare gli individui come possessori di diritti inviolabili. C’è d’altra parte una dimensione utilitaristica nella TG di Rawls, visto che il principio di differenza è giustificato dalla sua efficienza e dalla crescita del benessere: la disuguaglianza infatti è giustificata se porta al maggior vantaggio per tutti. Rawls però non dice perché sia necessario accettare che una società non egualitaria ma ricca sia più giusta di una società egualitaria ma più povera. L’uguaglianza è più favorevole all’amicizia della disuguaglianza e si possono infatti preferire degli amici poveri a dei nemici ricchi!
E poi è curioso che Rawls, pur trovando spesso abbastanza ripugnante la corsa all'arricchimento presente nelle nostre società, ammetta poi il principio di differenza al di là della giustificazione data per l'efficacia che può avere, dando così un'interpretazione più radicale che la TG non esclude (cfr. Jacques Bidet, John Rawls et la théorie de la Justice, PUF, 1995, collection Actuel Marx Confrontation).
Il principio di differenza è indeterminato
I princìpi di giustizia della TG potrebbero essere l’oggetto di un consenso per intersezione, proprio perché sono indeterminati. La TG sarebbe un coltello senza lama.
In effetti, il principio di differenza è in realtà basato sull’optimum di Pareto: una distribuzione è un optimum di Pareto se ogni tentativo di migliorare la situazione di uno dei soci, non può farsi che a detrimento di un altro. In breve, non si può modificare la ripartizione, finché tutti guadagnano. Il problema è che questo tipo di ripartizione è fondamentalmente indeterminato. Se le disuguaglianze sono giuste, dal momento che la situazione dei più sfavoriti viene migliorata, allora le più grandi disuguaglianze possono essere giustificate. Dopo tutto, uno degli argomenti in favore del libero mercato è che l'aumento delle disuguaglianze è ammesso purché sia compensato da un miglioramento del livello di benessere dei più poveri. Si potrebbe allora ammettere anche come giusta una ridistribuzione a sfavore dei più poveri, con la motivazione che sarebbe meno cattiva del mantenimento dello status quo, ad esempio: abbassare gli stipendi permette di aumentare i profitti e di creare dei posti di lavoro per domani, come dicono gli economisti liberisti; ecco che questo potrebbe essere perfettamente compatibile con una versione moderata del principio di differenza.
Rawls inoltre analizza la società come se fosse composta unicamente da salariati o da produttori indipendenti che effettuano scambi sul mercato. Sono messi fuori circuito i rapporti di proprietà e le diverse forme di rapporti di dominio.
Ci sarebbe da approfondire questo aspetto: le presupposizioni individualistiche di Rawls – vista la sua eredità rousseauiana e kantiana – vietano di concepire la società come una struttura, cioè come un insieme in cui gli individui dipendono gli uni dagli altri in diversi modi. In tal caso, i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione costituiscono l'elemento decisivo di questa struttura sociale, per due motivi:
1. Le disuguaglianze della proprietà e quelle generate dalla proprietà sono molto più importanti delle disuguaglianze dei redditi del lavoro, salariato o meno, nella misura in cui conseguono molto più spesso da eredità (cioè da privilegi di nascita) che dalle differenze di talento o di merito, per cui sono meno giustificabili.
2. I rapporti di proprietà non sono semplicemente dei rapporti degli individui rispetto alle cose, ma dei rapporti che danno ad un individuo potere su un altro individuo – questo è il caso tipico del rapporto salariato.
L'indifferenza manifestata da Rawls sulla questione della proprietà, ridurrebbe la TG ad una semplice giustificazione dello stato keynesiano, del “welfare”, ma più precisamente in un momento in cui il “welfare” è entrato in crisi. Rawls afferma chiaramente che il contratto è la forma più diffusa della società moderna, la sua ”metastruttura”, come direbbe Jacques Bidet. Il fatto che il contratto nel processo storico divenga in concreto progressivamente più prevalente, pone simultaneamente in contrasto da un lato l'uguaglianza tra i cittadini e la loro libertà, e dall’ altro il dominio. Su questo punto, si può leggere il capitolo VI, sezione II del libro I del Capitale di Marx.
Rawls riassume così il principio di differenza: “tutti i valori sociali, le libertà e le possibilità offerte all'individuo, redditi e ricchezza, così come le basi sociali del rispetto di sé stessi devono essere ripartite ugualmente, a meno che una ripartizione disuguale di uno o di tutti questi valori sia a favore di ognuno”.
Questa formulazione fa del principio di differenza un principio di uguaglianza, che integra la domanda sull'efficacia; ma chi giudica che le disuguaglianze accettabili lo siano veramente? Solo i più "sfavoriti" lo possono fare, a patto di aggiungere che i più sfavoriti lo sono per ragioni molteplici: la loro situazione sociale (operai nei confronti del capitalista), il loro genere, ecc. Questa lettura perfettamente coerente con la TG conduce a porsi delle domande che Rawls evita: se le disuguaglianze ingiuste esistono, bisogna agire per eliminarle? Gli sfavoriti sono autorizzati a farlo? Rawls si guarda bene dal rispondere a queste domande.
Non si può fare a meno di una concezione sostanziale del bene
Rawls inciampa continuamente in un problema di cui si tratta ancora in Liberalismo politico: il problema della distinzione fra la TG come teoria politica e le diverse concezioni sostanziali della vita buona. L'idea di una neutralità della TG nei confronti di tutte le concezioni ragionevoli del bene, mi sembra pressappoco insostenibile. Ho provato a dimostrare tutto ciò nel mio libro Morale et Justice sociale[1]. Un esempio permette di capirlo.
Rawls non può esplicitare ciò che chiama “concezione ragionevole del bene”. Colui per cui la vita è guidata dalla fede, ha una concezione ragionevole del bene? Se sembra ragionevole ammetterlo, si scivola su una buccia di banana. La TG presuppone uno Stato laico, dato che la libertà di coscienza è il suo valore cardine e tutte le coscienze devono essere trattate su una base di uguaglianza; infatti, alcuni credenti posti sotto velo di ignoranza ed applicando il “MAXIMIN” sceglierebbe uno Stato laico, perché lo Stato laico è il miglior Stato per le minoranze religiose[2]. Proviamo invece ad immaginare una religione nella quale la separazione del potere temporale e del potere spirituale siano un'idea assurda, addirittura empia. Il semplice fatto che i sostenitori di questa religione accettino di vivere in un regime di laicità, può sembrare contraddittorio con le loro credenze più profonde e potrebbe costituire dunque un inizio di violazione della loro libertà di coscienza. La laicità in effetti è accettabile solamente per coloro che considerano il rapporto con Dio un affare privato, un problema di coscienza; quindi per coloro che condividono questi valori, i nati in Occidente tra il Rinascimento e l’età classica. Del resto, ciò viene riconosciuto dallo stesso Rawls.
Dopo Rawls
La TG ha aperto una larga discussione filosofica che ha rinnovato profondamente la filosofia politica. Che si trattasse di sviluppi a partire dalle tesi di Rawls o di risposte a Rawls, vi è comunque stata una ricca stagione di pensieri filosofici. Alcuni autori, come Bernard Williams[3], dimostrano che la TG di Rawls presenta paradossalmente le stesse attrattive ingannevoli dell'utilitarismo. Amartya Sen e, al suo seguito, Salvatore Veca hanno criticato il carattere troppo radicale dell'anti-utilitarismo della TG.
Veca[4] parte da una constatazione: l'opposizione rawlsiana tra utilitarismo e morale deontologica è oggi messa seriamente in questione. L'idea rawlsiana di una teoria politica neutralistica, cioè indipendente da ogni ideazione particolare del bene spesso è confutata non solo dai comunitaristi o da quelli che vengono definiti i neo-aristotelici (come Mac Intyre), ma anche da liberali piuttosto radicali come Ronald Dworkin.
Per Dworkin, c'è un modello sostanziale di vita buona, quello che definisce la qualità principale di una vita degna di essere vissuta, e questo modello è implicito in una morale liberale pubblica fondata sui diritti. Se ne troverà una spiegazione abbastanza dettagliata nel suo libro Sovereign Virtue[5]. La linea di Amartya Sen è invece orientata a tenere insieme vita giusta e vita buona in una prospettiva fondata sui diritti e sulla libertà della persona.
Dunque abbiamo teorie che “prendono i diritti sul serio”[6] , per dirla con Dworkin, mentre l'utilitarismo classico, soprattutto quello di Bentham, si burla dei diritti dell'uomo che qualifica come “sofismi metafisici”. Ma queste teorie integrano degli obiettivi e dei problemi che erano riservati piuttosto alle morali utilitaristiche.
In quanto a Veca, egli sottolinea che si deve considerare l'individuo sotto un doppio aspetto: come paziente morale e come agente morale. Una buona TG deve tenere in conto queste due dimensioni e solamente all’interno di queste due dimensioni può essere definita la qualità della vita. Per quanto concerne l'utilitarismo, Veca non si interessa ad una sua critica ma piuttosto a stabilirne dei limiti. “L’utilitarismo mette a fuoco la nostra dimensione di pazienti morali ed è rispondente solo a questa dimensione, sulla base dell’idea che questa è la sola dimensione che conta o che deve contare in etica” [7].
A dispetto di questa limitazione, Veca afferma che non si può sottovalutare il valore dell'utilitarismo: “basta pensare alla versione dell'utilitarismo negativo in cui l'obiettivo è quello della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile”. Dunque non sono pertinenti le tesi critiche che constano nel “far evaporare l’importanza della dimensione di paziente morale”. Al contrario: “Una tesi che critica la pretesa di completezza e il monismo proprio dell’utilitarismo, rende giustizia al nucleo della morale utilitaristica e tuttavia non accetta che la dimensione del nostro essere pazienti morali sia l’unica dimensione che conti e a cui debbano essere rispondenti i nostri criteri di valutazione etica della politica e delle politiche” [8].
In poche parole, Veca sostiene piuttosto una tesi che si concentra sull'incompletezza dell'utilitarismo. Le teorie fondate sui diritti fondamentali della persona tengono in conto la dimensione degli individui come agenti morali. Di tali teorie ci sono due versioni possibili: la versione difesa dai libertari (libertarians), cioè essenzialmente Nozick, e la versione difesa dal liberismo politico.
La prospettiva libertaria è anche una prospettiva “monista”, poiché la concezione del bene non ha nessun ruolo nello spazio politico. I diritti delle persone sono solamente dei diritti negativi ed ogni politica che si occupasse di promuovere il benessere collettivo violerebbe immancabilmente i diritti delle persone, perché ridurrebbe necessariamente lo spazio delle scelte individuali. “Nella prospettiva del libertarismo è facile riconoscere le ragioni della disgiunzione radicale fra le questioni di vita giusta e le questioni di vita buona. La disgiunzione non dipende, come alcuni tendono a ritenere, dall’impegno deontologico delle teorie libertarie: essa dipende propriamente dall’impegno anti-consequenzialistico di una prospettiva centrata sulla sola dimensione rilevante del nostro essere agenti morali”[9].
Per Veca, la TG è al contrario una teoria deontologica, che non rinuncia ai criteri di valutazione che rispondono alle direttive delle istituzioni e dei politici sui piani di vita completi degli individui; c'è, in una tale ideazione della giustizia, uno spazio per una considerazione parziale del bene delle persone. Il modo in cui Rawls introduce i beni sociali primari definisce una nozione pubblica, impersonale, della qualità della vita. I beni primari sono dei beni definiti in modo strumentale, poiché sono i mezzi che permettono di realizzare il fini diversi degli individui.
La posizione di Salvatore Veca non è per l'esattezza una sintesi delle concezioni antagoniste in materia di morale pubblica. È piuttosto una posizione pluralistica, cioè una posizione che prende atto che nessuna concezione esistente presenta i caratteri di completezza sufficienti. Si potrebbe dire che Veca sostiene una concezione “debole” della TG, una concezione particolarmente sensibile alle critiche comunitarie o utilitariste.
Tutti questi tentativi sono estremamente interessanti. Si comprende chiaramente che Rawls, Sen o Veca sono animati dai migliori sentimenti e che desiderano ardentemente una società migliore di quella in cui viviamo. Ad esempio, chiamano in causa le disuguaglianze, ma non si interrogano mai sul carattere sistemico di queste disuguaglianze. Esse sono trattate come fatti naturali. La “globalizzazione” è concepita anch’essa come una realtà naturale o quasi naturale, senza sottolineare quanto questa “globalizzazione” abbia come condizione lo sviluppo disuguale e combinato delle differenti economie capitalistiche. Veca chiede che si rifletta su una concezione della giustizia che vada oltre le frontiere nazionali e su una “politica interna mondiale”[10]. Viene ispirato a questa riflessione dalla reazione della “comunità internazionale” dopo l’11 settembre e dal fatto che gli Stati Uniti siano usciti dalla loro “solitudine imperiale” chiamando in causa l’ONU e laNATO, interpellando la Russia e la Cina e dichiarando che i Palestinesi hanno diritto ad un loro Stato, prima di cominciare la guerra contro l’Afganistan, chiamata dallo stesso Veca guerra per “neutralizzare le centrali del terrore globale” [11]. La teoria astratta della giustizia, con tutte le sue finezze, lascia il posto alla pura e semplice propaganda imperiale, prendendo per valido ciò che gli attori del processo storico dicono di sé stessi. Ci si sarebbe aspettato che un esperto di epistemologia come Veca avesse dato prova di maggior prudenza!
Non tutti i filosofi politici contemporanei si sono messi al rimorchio del “nuovo ordine mondiale.” Dworkin ha preso coraggiosamente posizione contro il “Patriot Act” e le misure di restrizione della libertà prese dall'amministrazione Bush in nome della guerra contro il terrorismo. In un modo o nell'altro, la filosofia politica, quando cerca di spiegare i fenomeni estraniandosi da ogni conoscenza concreta delle strutture sociali e della storia, si riduce a dare delle sanzioni trascendentali all'ordine sociale esistente.
Proviamo ad ammettere, come dice Veca, che il male ci unisce mentre il bene ci divide, e partiamo da ciò che genera il male, cioè l'ingiustizia. Questa, però, non dipende dalla disuguale ripartizione delle ricchezze, né dalla disuguale capacità dei cittadini ad accedere alle posizioni di potere; infatti, anche presso i Nambikwara studiati da Claude Lévi-Strauss[12], un popolo privo di tutto, che vive al limite della sopravvivenza, permangono delle disuguaglianze sociali e politiche, molto deboli ma reali: il capo ha certi vantaggi, soprattutto quello di avere parecchie donne, in cambio dei suoi doveri propriamente politici. Marx si burlava del “comunismo grossolano” di certi suoi contemporanei che riducevano la lotta delle classi alla domanda sullo spessore del portafoglio. Si potrebbe ammettere anche che una parte delle disuguaglianze di reddito e di posizione sociale è praticamente inevitabile, almeno nell'orizzonte storico che possiamo tentare di esplorare.
Le disuguaglianze che invece rappresentano delle vere ingiustizie sono quelle che esprimono i rapporti di dominio. Queste disuguaglianze ingiuste sono la conseguenza dei rapporti sociali di produzione. Tra il capitalista e gli operai, l'ingiustizia non risiede nel fatto che il primo è ricco ed il secondo è povero, ma nel rapporto di dominio che subordina il secondo al primo, rapporto che Marx chiama con molta precisione “capitale”. Quando lo stesso Marx studia la trasformazione dello scambio commerciale in circolazione del capitale, cioè quando spiega come il ciclo dello scambio per i bisogni M-D-M cede il posto al ciclo del capitale D-M-D', dimostra la trasformazione che viene operata nei rapporti fra gli attori, ossia fra l’uomo che possiede il denaro e l’operaio che ha soltanto la sua pelle da vendere. Il lavoratore “vende la sua pelle”, dice Marx. Ecco esattamente in che cosa consistono l'alienazione e lo sfruttamento, due termini inseparabili. Nel paradiso capitalista il principio di uguale libertà per tutti è rispettato solamente sotto la forma ironica che gli dava Anatole France: il povero ed il ricco hanno tutti e due il diritto di dormire sotto i ponti!
In conclusione, sotto qualsiasi angolazione si affronti il problema, appare chiaro che la filosofia politica separata da una teoria globale del processo socio-temporale è una teoria mutilata e destinata a mancare il suo scopo.
Alcuni ragioni del crollo del marxismo
Il ritorno di vitalità della filosofia politica è correlato, come abbiamo detto in precedenza, al declino ed al crollo finale del marxismo. Non ho intenzione di riprendere in questa sede l’illustrazione del bilancio del marxismo storico[13]. Mi accontenterò di dare alcune indicazioni che si limitino a suggerire che a mio avviso nel marxismo, come nel pensiero di Marx, il politico costituisce un vero punto cieco.
Il deperimento dello Stato: il ritorno all'utopia
La prospettiva a lungo termine del pensiero di Marx è del tutto salva da una prospettiva politica. Se non c'è filosofia politica marxiana o marxista, la ragione è semplice: la storia nella fase comunista smette di essere politica perché non viene più strutturata dal governo degli uomini. Per Marx, sia la dittatura del proletariato, sia un governo democratico radicale del genere “Comune di Parigi” sono solamente delle formazioni transitorie, destinate a preparare la propria scomparsa. Infatti, la vera emancipazione dell'individuo non può risiedere in un sistema sociale e politico nel quale la personalità resta scissa, dato che è comparata e valutata secondo un criterio determinato, cosa che invece avviene ancora nella prima fase del comunismo. Nella Critica del programma di Gotha, Marx definisce il comunismo realizzato in modo palesemente utopico, cosa particolarmente evidente ai nostri occhi di cittadini del XXI sec. “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Karl Marx, Critica del programma di Gotha).
In L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza (1880), polemizzando tanto contro i partigiani di Lassalle quanto contro gli anarchici, Engels riassume la prospettiva nata dalla presa del potere dicendo: “Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene ‘abolito’: esso si estingue”. Su questo punto Marx e Engels sono completamente d’accordo. Però, la loro posizione, stricto sensu, è incoerente. È una mescolanza d’utopia e di radicalismo verbale molto strana.
Inconsistente è anche la descrizione che fa Marx della fase superiore del comunismo. L'idea che il lavoro diventi il primo dei bisogni nella società comunista appare nei Manoscritti del 1844, ma Il Capitale nonva in questo senso. Al contrario, nel testo posto in conclusione del libro III, Marx si esprime con molta chiarezza contro questa idea: “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria” [14]. L'uomo non può dunque né liberarsi attraverso il lavoro, né liberarsi dal lavoro. Posto che il lavoro appaia come una necessità ed una costrizione eterna, “tanto l'uomo primitivo, quanto l'uomo civilizzato sono costretti a misurarsi con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la loro vita; questa costrizione esiste per l'uomo in tutte le forme di società e sotto tutti i tipi di produzione. Col suo sviluppo, questo impero della necessità naturale si allarga perché i bisogni si moltiplicano; ma si sviluppa il processo produttivo per soddisfarli allo stesso tempo”.
È una costrizione che, sotto un certo aspetto, può andare solamente allargandosi. Tuttavia, una certa forma di libertà può esistere anche all’interno del lavoro, ma è una libertà limitata, e non il libero sviluppo delle potenzialità che sono nell'uomo che può avverarsi solamente al di là della sfera della produzione materiale. Questo fatto presenta due aspetti :
1. Una comprensione della necessità che sia sufficiente, per evitare lo spreco, razionalizzare i rapporti tra l'uomo e la natura, preservare le due fonti della ricchezza sociale: il lavoro e la terra.
2. Se la necessità del lavoro deve imporsi eternamente, perché l'uomo resta un essere naturale, egli può comunque sperare di abolire il dominio che su di lui esercitano i suoi stessi scambi, e dunque agire in quanto uomo socializzato.
L'uomo non può sbarazzarsi della necessità; né può solamente organizzare diversamente le forme nelle condizioni conformi alla sua natura. Resta vero che questa libertà, acquisita sul campo della produzione materiale, è solamente una libertà limitata; perché “al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità” [15].
Conclusione prosaica, lontana dall'utopia della Critica del programma di Gotha. Il lavoro non è il primo bisogno, è una realtà contraddittoria: non c'è emancipazione senza lavoro e allo stesso tempo non c’è vera emancipazione che al di fuori del tempo del lavoro. Si può dunque chiedere simultaneamente la diminuzione del tempo di lavoro e richiedere, non solo il diritto al lavoro per tutti, ma anche affermare che – come dicono le parole de L'internazionale – “l'ozioso andrà a vivere altrove”.
La prospettiva tracciata da Marx ed Engels è chiaramente utopica anche in un altro punto: ossia, riprendendo la formula di Saint-Simon, nel passaggio “dal governo degli uomini all'amministrazione delle cose”. È tutto quello che viene detto riguardo le prospettive concernenti l'organizzazione del lavoro. Che cosa può voler dire l'idea che gli individui non saranno più asserviti alla divisione del lavoro? Marx ha dimostrato, in sintonia con Smith, che la divisione cooperativa del lavoro è l'altra faccia principale delle forze produttive. Come può sperare di fare sorgere l'abbondanza dalla forma cooperativa rinunciando alla divisione del lavoro? Si può, come Marx diceva ironicamente nell’Ideologia tedesca, essere cacciatore la mattina, pescatore il pomeriggio e “critico” la sera? Questa elementare divisione del lavoro, concepibile in una società di cacciatori-raccoglitori, non è possibile in una società evoluta. Come essere medico la mattina, fisico nucleare il pomeriggio ed artista-pittore la sera?
Ci sarebbero ancora molte cose da dire sul problema dell'abbondanza delle risorse. Marx pensa con l'ottimismo degli uomini del suo secolo, scienziati ed industriali, ma noi abbiamo appreso che vivremo necessariamente in un mondo dalle risorse limitate, dove i produttori dovranno regolare i loro rapporti con la natura nel modo più economico. Se le risorse sono limitate, sarà impossibile dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, salvo definire in anticipo ciò che sono i bisogni di ciascuno.
Il punto cieco
Dunque il pensiero politico di Marx soffre di incontestabili debolezze e contraddizioni. Si tratta di un pensiero fondamentalmente anti-politico, il cui il legame con Stirner, il vecchio “santo Max”, del 1845 è più forte di quanto non si sia detto.
Sebbene non costituisca principalmente in sé stessa un argomento inconfutabile, l'esperienza storica, quella degli inizi della Rivoluzione russa, permette di capire meglio alcuni impasses del pensiero marxiano sul problema dello Stato.
L'esperienza sovietica è tanto più interessante della rivoluzione bolscevica poiché essa doveva mettere in pratica i princìpi teorici che Lenin aveva ricostruito in Stato e rivoluzione. Per Lenin e Trotskij, la rivoluzione russa costituisce così una messa alla prova delle lezioni che Marx trae dalla Comune da Parigi. Questa messa alla prova si rivela catastrofica per questa parte del pensiero di Marx e per il marxismo rivoluzionario tradizionale. L'anti-parlamentarismo di La guerra civile in Francia è recuperata da Lenin che insiste sulla necessaria “soppressione del parlamentarismo”.
Si tratta puramente e semplicemente di sopprimere tutte le forme costituzionali del potere politico, particolarmente ogni forma che si basi sulla separazione dei poteri, e di scioglierli in un'organizzazione ultra-democratica nella quale quelli che decidono eseguono. In realtà, queste assemblee agenti (i soviet in Russia) diventano molto rapidamente la copertura degli specialisti dell'azione (cioè delle minoranze più politicizzate) ed il loro carattere ultra-democratico si rovescia nel suo contrario. Proprio come avevano visto bene i pensatori classici l'assenza di separazione dei poteri trasforma la democrazia in tirannide, e neppure in “tirannide della maggioranza”, perché la piramide elettiva dei consigli di base fino al soviet supremo diviene di fatto un sistema ancora più selettivo, meno rappresentativo dei sistemi censitari tradizionali.
L'abolizione della separazione tra lo Stato ed il popolo, cioè la fine della vecchia distinzione tra Stato e “società civile”, costituisce l'ultima grande lezione marxiana della Comune di Parigi. Essa è sviluppata a lungo da Lenin[16].
Come spiegare che gli stessi uomini che sostenevano questa tesi “democratica” hanno costruito un apparato di Stato in cui il “potere speciale di repressione” ha raggiunto uno sviluppo illimitato? Una risposta risiede probabilmente nella volontà di non considerare più lo Stato e la società civile come due sfere separate. Lenin diceva che nel governo operaio anche la cuoca avrebbe potuto governare, ma questo si è realizzato mettendo la polizia politica nella cucina degli appartamenti comuni. Sotto la copertura dell’indebolimento dello Stato, della sua “estinzione”, si produce in realtà l'invasione dello Stato in tutte le sfere della vita, sociali come private, e ciò è reso possibile con una legittimazione ideologica classica: lo Stato che diventa lo Stato del popolo intero, non è più da temere, e colui che lo teme non può dunque che essere un nemico del popolo!
La questione dello Stato è il vero punto cieco del pensiero marxiano. Gli interventi congiunturali di Marx su questa questione confondono più di quanto non chiariscano; la regressione nell'utopia dell'estinzione dello Stato e di uno Stato “al di là” del diritto, ha giocato infine il ruolo di un’ideologia che ha permesso di elevarsi ad una nuova classe o casta dominante nei paesi cosiddetti socialisti. Più precisamente, il più grande errore dei marxisti è stato quello di aver voluto trasformare questi interventi congiunturali e spesso molto polemici in una “teoria scientifica”. In realtà, non c'è nessun legame logico tra le analisi ristrette del modo di produzione del Capitale e le prospettive utopiche, tanto quelle dei Manoscritti quanto quella della Critica del programma di Gotha.
Certo, ci sono delle indicazioni interessanti negli scritti di Marx ed Engels, particolarmente sul ruolo della democrazia parlamentare come forma di scioglimento del regno della borghesia. Rimane, però, la necessità di pensare ad una filosofia politica coerente a partire dall'analisi critica della società capitalista come la si può trovare nel Capitale. Se lo Stato è una realtà duratura e non un fantasma destinato a sparire a breve scadenza, occorre necessariamente un filosofia sistematica sullo Stato. E se si vuole guardare all'orizzonte marxiano del comunismo, bisogna provare a pensare ciò che potrebbe essere uno Stato comunista, per quanto strana possa suonare questa espressione ai comunisti marxisti ortodossi (sempre che ci siano ancora!).
Un comunismo non utopico
Al di là di una filosofia politica spesso impotente e di una teoria critica della società senza mezzi per pensare la propria politica, s’impone la necessità d’una sintesi. Se si prendono sul serio le rivendicazioni egualitarie ed il senso della giustizia che sono inclusi nella tradizione della filosofia politica da Rousseau a Rawls o Dworkin, si comprende facilmente che nessuna di queste rivendicazioni può essere soddisfatta in una società che si basa sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Se (come Marx) si pensa che non solo il modo di produzione capitalistico è la causa di un'insopportabile alienazione dell’essenza umana, ma che è giunta l'ora dell'emancipazione umana, si deve riflettere seriamente sul modo in cui queste cose possano essere attuate politicamente ed uscire una volta per tutte dalle utopie che hanno condotto il marxismo alla catastrofe.
Avendo rinunciato all'utopia, si dovrebbe lavorare per pensare ad un comunismo non utopico. Restando fedeli a ciò che è in fondo il pensiero di Marx, dobbiamo partire dall'ispirazione alla libertà che è stato il motore dello sviluppo rivoluzionario, in Europa dapprima ed altrove poi, da forse mille anni, dal momento in cui, nei comuni, i commercianti e gli artigiani hanno scosso le catene del feudalesimo e del domino clericale. Ora, questo vasto movimento emancipatore ha aperto la strada allo sviluppo del capitalismo che ricostruì un nuovo assoggettamento, quello dei lavoratori salariati. In condizioni normali, passiamo circa un terzo della nostra vita a lavorare ed un altro terzo per riprendere forze per il lavoro dell'indomani. In sostanza, dunque, l’uomo attivo quando manifesta la propria essenza, lo fa nella condizione di lavoratore salariato, in quanto il lavoro è per lui un’alienazione.
Essere sotto il comando di un altro uomo nel lavoro è una situazione totalmente contraria ad ogni idea della libertà. Come per il cane della favola di La Fontaine, ci siamo talmente abituati al collare che finiamo per dimenticarlo, poiché questa catena garantisce il nostro pasto, e ci accontentiamo di contrattare al massimo per la lunghezza della catena e la qualità delle crocchette. Ma si può chiamare in un altro modo questa situazione se non schiavitù salariata, così come diceva Marx? La gran parte della vita sociale dell'immensa maggioranza degli uomini è vita al lavoro, ed in tutta questa parte della loro esistenza sono trattati semplicemente come mezzi e mai come fini in sé, per riprendere qui le formule del vecchio Kant. In altre parole – per utilizzare ancora il vocabolario kantiano – sono privati della loro dignità. I capitalisti nascondono del resto ancor di più questa “reificazione”, ossia questa trasformazione degli uomini in cose, che implica il lavoro salariato. Un tempo avevano dei responsabili del personale, un termine che include ancora l'argomento di diritto che è la persona, ma li hanno sostituiti con i direttori delle “risorse umane”, un'espressione di cui l'oscenità sfugge solamente a quelli che hanno perso ogni senso morale.
Questa reificazione non riguarda solamente le ore spese al lavoro, non potendo il lavoratore sfuggire al dominio nel “tempo libero”. In effetti, è la vita stessa del lavoratore che dipende dal capitalista: quando la crisi getta milioni di salariati sulla strada, quando i pensionati vedono la loro pensione andare in fumo e devono rimettersi a cercare lavoro, quando i giovani devono lavorare gratuitamente negli pseudo-stage di qualifica nella speranza di essere un giorno impiegati altrove, dove è la famosa libertà di cui i liberali ci riempiono le orecchie?
In sintesi, l'unica prospettiva degna di un uomo civilizzato che sa camminare sulla Luna ed addomesticare (pressappoco) l'energia atomica, di quest’uomo che può comunicare istantaneamente con ogni altro suo simile sul pianeta intero, è “l'abolizione del lavoro salariato e del patronato”, formula degli anarco-sindacalisti francesi della CGT (1905). O, con Marx: “L'appropriazione capitalista, conforme al modo di produzione capitalista, costituisce la prima negazione di questa proprietà privata che è solamente il corollario del lavoro indipendente ed individuale. Ma la produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della natura. È la negazione della negazione. Ristabilisce non la proprietà privata del lavoratore, ma la sua proprietà individuale, fondata sugli acquisiti dell'era capitalista, sulla cooperazione e il possesso comune di tutti i mezzi di produzione, inclusa la terra”. (Capitale, I, s. VIII, cap. XXXII)
Si tratta di ristabilire la proprietà individuale del lavoratore, ma non la proprietà privata, e ciò supporrebbe che vengano distrutte tutte le precedenti istituzioni dell'era capitalista. La proprietà individuale sulla base della cooperazione non può significare altro che la proprietà associativa dei lavoratori, quello di cui abbiamo l'abbozzo nelle cooperative operaie di produzione. La nazionalizzazione, tipica del socialismo del secolo scorso, non è il possesso comune dei mezzi di produzione. Nell'impresa nazionalizzata, il lavoratore resta sottomesso, non tanto al capitalista individuale, ma al direttore chiamato dal governo. È solo un cambiamento della classe al dominio, ma non l’abolizione del lavoratore salariato e del padronato. Diversamente, un'organizzazione fondata sull'associazione dei produttori supporrebbe una partecipazione diretta dei lavoratori alla direzione delle imprese ed alla vita economica, esattamente così come degli artigiani o degli altri lavoratori indipendenti si associano o per la totalità o per una parte delle loro attività.
Non c'è dubbio sulla possibilità di costruire delle imprese che siano proprietà dell'associazione dei produttori. I problemi sono più spinosi quando si passa dalla scala della piccola produzione alle grandi unità integrate di produzione. Ne abbiamo tuttavia un esempio, quello di Mondragon, una cooperativa nata nel paese basco che raggruppa oggi decine di migliaia di cooperatori in Spagna ed altrove. Questa cooperativa opera nel campo industriale (attrezzatura, materiale sportivo, ecc.), nella finanza, nella grande distribuzione alimentare, eccetera. Mondragon esiste ormai da un mezzo-secolo e rimane un'impresa capitalistica nella misura in cui è sottomessa alla concorrenza e deve obbedire alle regole di gestione delle imprese capitaliste, rischiando di sparire. Del resto, solamente la metà dei salariati del gruppo è socio della cooperativa, poiché Mondragon ha acquistato delle società non cooperative che restano delle società capitaliste normali sebbene il proprietario sia, questa volta, un'associazione di produttori. L'esistenza di un’impresa cooperativa molto grossa basta a dimostrare che l'associazione dei produttori non è solamente una chimera o un'organizzazione valida in alcuni ambienti ecologisti.
Più complessa è la questione del coordinamento di insieme, sulla scala di una nazione o di un gruppo di nazioni. Si conoscono due modi di allocare le risorse disponibili tra i diversi settori della produzione: il mercato ed il piano. Il piano centrale non si è mostrato molto brillante nelle sperimentazioni conosciute, e la causa dell'insuccesso non è dovuta solamente al carattere particolare della casta burocratica sovietica ma a problemi più generali e più fondamentali. Tuttavia un puro “socialismo di mercato”, ossia un'organizzazione economica concorrenziale nella quale le imprese capitaliste siano sostituite semplicemente dalle cooperative operaie, è un tipo di società lontano dall’essere soddisfacente perché riproduce su altra scala il principio capitalista secondo il quale gli uomini sono per natura dei concorrenti o dei rivali. Esiste del resto tutta una letteratura che, sotto il titolo generale di “modelli di socialismo”, discute i diversi modi di articolare l'appropriazione sociale dei mezzi di produzione ed il mercato.
Si può sostenere che questa organizzazione comune della produzione risponde soltanto al problema della libertà collettiva e non della libertà individuale. Non facciamo tuttavia che riprendere il passo già tracciato da Rousseau nel Contratto Sociale. Ad un'impossibile e povera libertà naturale dell'individuo isolato dagli altri uomini, alla libertà di alcuni che si paga con la schiavitù della grande maggioranza, che si chiama liberismo, sostituiamo una libertà civile infinitamente più ricca, poiché fondata sull'impegno di tutti nell'organizzazione e nella definizione delle finalità di produzione della vita materiale e spirituale di tutti.
È possibile concepire un'organizzazione sociale che sia in ogni punto la manifestazione della libertà individuale? O ancora, è possibile superare la contraddizione tra individuo e società? Ecco la domanda sulla quale inciampa, alla fine, ogni pensiero rivoluzionario. L'anarchia dà un soluzione impossibile: l'affermazione assoluta dell'individuo che dovrebbe vivere con gli altri senza imporre e senza imporsi nessuna costrizione. Il collettivismo denominato anche “comunismo” propone una soluzione inaccettabile e, a lungo termine, insopportabile. Bisogna dunque ammettere una contraddizione senza soluzione tra individuo e società. Quindi lo sviluppo di istituzioni comunitarie, di una vita comunitaria liberamente scelta è possibile solamente se allo stesso tempo l'individuo può proteggersi dalla tirannide collettiva, se dispone di una sfera di intimità che gli sia propria e che sia legalmente inviolabile. Questa sfera include le libertà individuali tradizionali (libertà di coscienza, libertà di espressione, libertà di andare e di venire, ecc.) così come il riconoscimento della proprietà privata. Si deve distinguere, infatti, la proprietà privata della sua abitazione e dei suoi beni e la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia proprio la proprietà capitalistica. La seconda non è una proprietà sulle cose, ma un rapporto sociale che presuppone il dominio, mentre la prima è semplicemente l'affermazione del diritto dell'individuo ad abitare il mondo comune.
Più generalmente, in una società dove dominino i princìpi comunisti si dovrebbe evitare che i poteri siano concentrati (anche se questi stanno nelle mani di uno Stato repubblicano e sociale) e si dovrebbe, nel maggior grado possibile, permettere a ciascuno di vivere la vita che sceglie. Ad un'organizzazione sociale caratterizzata da un dominio costrittivo si devono poter sostituire, per quanto possibile, delle appartenenze comunitarie liberamente scelte. Per questa ragione, un società comunista potrebbe accettare perfettamente una sfera di piccola produzione indipendente nel campo artistico, in quello dell'artigianato o delle libere professioni. Colui che vuole produrre individualmente al di fuori della disciplina delle cooperative di produzione deve poterlo fare senza danno. E starà alle cooperative dimostrare che sono realmente superiori all’iniziativa individuale.
Nello stesso ordine d’idee, un comunismo non utopico sarebbe internazionalista, ma riconoscerebbe l'esistenza imprescindibile delle nazioni. L'internazionalismo significa la solidarietà dei popoli e la loro unione in un trattato di pace duratura, un po’ come in Kant o in Rawls, ma non implica l'idea di una repubblica universale, di un Stato mondiale, una delle prospettive più terribili che si possano immaginare. In effetti, la dispersione del potere permette di considerare la salvaguardia della libertà, mentre “il comitato centrale mondiale dei consigli operai” non farebbe che ricostituire il “soviet supremo”.
Tutto ciò che abbiamo abbozzato non ha più a che vedere con il “comunismo integrale” e con “l’uomo nuovo”, non ha più a che vedere con la defunta utopia del comunismo storico del Novecento. Si tratta solamente, a grandi linee, di una possibile trasformazione sociale, che si può mettere in atto adesso, sebbene parzialmente e progressivamente.
Fermiamoci qui. Vi è bisogno di costruire una filosofia politica intrecciata con una teoria sociale, una filosofia politica dell’emancipazione effettiva dei dominati.
[1] D. Collin, Morale et justice sociale, Le Seuil, Paris, 2001
[2] È noto che i cattolici olandesi sono dei difensori della laicità, come lo sono i protestanti francesi!
[3] B. Williams, La sorte morale, (Moral Luck, 1981), trad. di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1987.
[4] S. Veca, La bellezza e gli oppressi: dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, Milano 2002.
[5] R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza, Feltrinelli, Milano 2002.
[6] Id., I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1982.
[7] S. Veca, La bellezza e gli oppressi : dieci lezioni sull’idea di giustizia, cit, pp. 40-41.
[8] Ivi, p. 41.
[9] Ivi, p. 42.
[10] Ivi, p. 164.
[11] Ivi, p. 165.
[12] Cfr. C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 2008.
[13] Mi si permetta di rinviare a D. Collin, Comprendre Marx, Armand Colin, Paris 2006.
[14] K. Marx, Il capitale, Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1989, cap. 48, p. 933.
[16]La si può leggere in modo ironico, quando Lenin scrive: “Dal momento che è la maggioranza del popolo, che domina lei stessa i suoi oppressori, non c’è più bisogno di un ‘potere speciale’ di repressione”.
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Ecrit par dcollin le Vendredi 6 Novembre 2009, 17:42 dans "Morale et politique" Lu 6868 fois.
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Commentaires
re: politica
Ricette - le 06-05-10 à 16:36 - #
Bello vedere che un blog francese parla dei pensieri italiani, siamo in europa ed è giusto scambiare le ideologie delle varie nazioni...
Saluti
Elisa