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Pareyson: Verità e interpretazione

Pensiero Espressivo E Pensiero Rivelativo - Introduzione 5

5. Inoggettivabilità della verità.

A questo punto si potrebbe essere indotti a ritenere che, come il pensiero storico non rivela il suo vero significato se non è sottoposto a un processo di demistificazione, cosi il pensiero rivelativo non appare nella sua vera natura se non si assoggetta a un trattamento di demitizzazione. E infatti il pensiero rivelativo sembra possedere i caratteri del mito: poiché la verità non si offre se non all’interno d’una prospettiva e non è colta se non come inesauribile, il discorso che la riguarda ha la duplice caratteristica d’esser sempre molteplice e mai tutto esplicito: sempre molteplice, cioè personale ed espressivo, e mai tutto esplicito, cioè indiretto e significativo; e non son questi, appunto, i caratteri del mito, in cui la vis veri trova nell’espressione della persona l’ambiente piú propizio per annunciarsi, e il discorso parla indirettamente del suo assunto, svelandolo per lampi piuttosto che esaurendolo in maniera oggettiva?

Ma qui si rende indispensabile una precisazione, intesa ad evitare che nel discorso filosofico s’insinui la nebulosità d’un mal inteso misticismo. Certo, affermare che la verità non si offre se non all’interno d’ogni singola prospettiva senza mai identificarsi con nessuna di esse, e che la verità non può esser colta che come inesauribile, cioè risiede nella parola non come presenza compiutamente esplicitata, ma come origine e sorgente, significa affermare che la verità è fondamentalmente inoggettivabile. Per un verso, infatti, se la verità non si offre se non all’interno d’una prospettiva personale che già la interpreta e la determina, è impossibile un raffronto tra la verità in sé e la formulazione che se ne dà: per noi la verità è inseparabile dall’interpretazione personale che ne diamo non meno di quanto noi stessi siamo inseparabili dalla prospettiva in cui la cogliarno: noi non possiamo uscire dal nostro punto di vista per coglierla in una presunta indipendenza che valga a farne un criterio con cui misurare dall’esterno la nostra formulazione di essa. Per l’altro verso, se la verità non può esser colta che come inesauribile, essa piú che oggetto e risultato è origine e impulso, e il pensiero, piú che parlarne come se fosse un tutto concluso, deve contenerla e muoverne e alimentarsene, trovandovi lo slancio del proprio corso, la fonte dei propri contenuti, la misura del proprio esercizio, e nel pensiero essa risiede come una presenza tanto piú attiva ed efficace quanto meno configurabile e definibile.

Tutto ciò non esce dai limiti della normale esperienza, e l’ampio arco dell’operosità umana ne offre numerose analogie. L’impossibilità del confronto caratterizza in generale l’interpretazione, come ad esempio l’esecuzione d’un’opera d’arte o la ricostruzione d’un evento storico, ove a tal segno l’esecuzione vuol rendere l’opera nella pienezza della sua realtà sensibile e la ricostruzione storica vuol dare l’evento qual esso realmente fu, ch’esse stesse sono il loro oggetto, e non una copia di esso, si che manca la possibilità del confronto fra la realtà da interpretare e l’interpretazione stessa, perché tanto l’opera per l’esecutore quanto l’evento per lo storico non s’offrono fuori dall’interpretazione ch’essi ne danno. E di presenze attivissime anche se non configurabili è costellata l’intera esperienza dell’uomo: come quando nel processo della produzione artistica l’opera d’arte agisce come formante prima ancora di esistere come formata; o come quando nella lettura d’un libro la comprensione delle parti è resa possibile solo dall’idea del tutto, la quale non si consegue nemmeno alla fine della lettura, dopo percorse tutte le parti, se già non s’era divinata sin dall’inizio; o come nei frequentissimi casi di felice corrispondenza fra attesa e scoperta, quali la soluzione d’un problema, un’illuminazione improvvisa, una simpatia a prima vista, che sgorgano tutte da uno stato di fecondità, in cui la scoperta non è se non il riconoscimento di qualcosa che già si conosceva per un indistinto presagio, e non fa che colmare e precisare un’attesa che già la conteneva e la reclamava.

Ma il caso della verità è piú radicale di questi esempi che pure sono già cosi significativi: la sua inoggettivabilità è originaria e profonda, e si manifesta in un’inarrestabile ulteriorità, per cui la verità si consegna alle piú diverse prospettive solo in quanto non si identifica con nessuna di esse, e rende possibile il discorso solo in quanto non si risolve a sua volta in discorso. Non è meraviglia, allora, che si sia pensato di affidare la verità piú che alla vis vocabuli all’impenetrabilità del silenzio e alla misteriosità del nulla. Si giunge cosi a dire che la verità non ha altro modo di consegnarsi alla parola che quello di sottrarsi ad essa per rifugiarsi nel segreto, e solo mediante questo ritiro la parola si fa eloquente, al punto che veramente parlante è soltanto il silenzio, origine muta d’ogni discorso; e che della verità non c’è rivelazione senza occultamento, non solo perché essa non appare che in altro da sé, e qual è in sé non può esser che nascosta, ma anche perché ogni sua manifestazione, invitando a identificarla e confonderla con la parola rivelatrice, è fonte essa stessa di offuscamento e d’errore. E si continua affermando che il pensiero non può veramente contenere la verità se non mantenendola in questa sua ineffabilità: la verità ci viene incontro uscendo dal mistero solo per tornarvi e restarvi, perché il suo modo d’esser presente è propriamente un’assenza, e la sua inoggettivabilità non è che l’indizio d’una sua originaria solidarietà col nulla, e un segno persistente della madre notte.

 

 

Traduction

5. Inobjectivabilité de la vérité
À ce point, on pourrait être induit à retenir que, comme la pensée historique ne révèle pas sa véritable signification si elle n’est pas soumise à une processus de démystification, de même la pensée révélatrice n’apparaît pas dans sa véritable nature si elle n’est pas soumise à un traitement de « démythisation ». Et, en fait, la pensée révélatrice semble posséder les caractères du mythe : puisque la vérité ne s’y offre pas autrement qu’à l’intérieur d’une perspective et n’est saisie que comme inépuisable, le discours qui la regarde a la double caractéristique d’être toujours multiple et de n’être jamais tout à fait explicite : toujours multiple, c’est-à-dire personnel et expressif, et jamais totalement explicite, c’est-à-dire indirect et significatif ; et ne sont-ce pas là précisément les caractères du mythe, dans lequel la vis veri trouve dans l’expression de la personne l’environnement le plus propice pour s’annoncer, et où le discours énonce indirectement son propos, dévoilant par éclairs plutôt que l’épuisant de manière objective ?

Mais ici on doit donner une précision indispensable afin d’éviter que ne s’insinue dans le discours philosophique la nébulosité d’un mysticisme mal compris. Certes, affirmer que la vérité ne s’offre qu’à l’intérieur de chaque perspective singulière, sans jamais s’identifier avec aucun d’entre elles, et que la vérité ne peut être saisie que comme inépuisable, c’est-à-dire qu’elle réside dans la parole non comme présence complètement explicite, mais comme origine et source, signifie affirmer que la vérité est fondamentalement inobjectivable. Par un côté, en effet, si la vérité ne s’offre qu’à l’intérieur d’une perspective personnelle qui déjà l’interprète et la détermine, est impossible une comparaison entre la vérité en soi et la formulation qui s’en donne : pour nous, la vérité est inséparable de l’interprétation personnelle que nous en donnons, tout autant que nous-mêmes sommes inséparables de la perspective dans laquelle nous la saisissons : nous, nous ne pouvons pas sortir de notre propre point de vue pour la saisir dans une présumée indépendance qui vaudrait à en faire critère au moyen duquel mesurer la formulation que nous en donnons. D’un autre côté, si la vérité ne peut être saisie que comme inépuisable, celle-ci, plus qu’objet et résultat est origine et impulsion, et la pensée, plus qu’en parler comme si elle était un tout conclus, doit la contenir et en mouvoir et en alimenter, en trouvant l’élan de sa propre course, la source de ses propres contenus, la mesure de son propre exercice, et dans la pensée, elle réside comme une présence d’autant plus active et efficace qu’elle est moins représentable et définissable.

Tout ceci ne sort pas des limites de l’expérience normale et l’ample arc de l’activité humaine en offre de nombreuses analogies. L’impossibilité de la confrontation caractérise en général l’interprétation, comme par exemple l’exécution d’une œuvre d’art ou la reconstruction d’un événement historique, où à cette fin l’exécution veut rendre l’œuvre dans la plénitude de sa réalité sensible et la reconstruction historique veut donner l’événement tel qu’il fut réellement, qu’elles-mêmes soient leur objet et non une copie de celui-ci, si bien que manque la possibilité de la confrontation entre la réalité à interpréter et l’interprétation elle-même, parce que tant l’oeuvre pour celui qui l’exécute que l’événement pour l’historien ne s’offrent pas en dehors de l’interprétation qu’ils en donnent. Et, de ces présences très actives, même si elles ne sont pas représentables, est constellée l’expérience de l’homme tout entière : comme quand dans le processus de la production artistique l’œuvre d’art agit comme formatrice avant même d’exister déjà comme formée ; ou comme quand, dans la lecture d’un livre la compréhension des parties est rendue possible seulement par l’idée du tout, laquelle ne se donne néanmoins qu’à la fin de la lecture après avoir parcouru toutes les parties, si elle ne s’était pas déjà devinée depuis le début ; ou comme dans les cas très fréquents de correspondance heureuse entre attente et découverte, telles que la solution d’un problème, une illumination improvisée, une sympathie au premier regard, qui toutes jaillissent d’un état de fécondité, où la découverte n’est rien si ce n’est la reconnaissance de quelque chose que l’on connaissait déjà par présage indistinct et ne fait que remplir une attente qui déjà la contenait et la réclamait.

Mais le cas de la vérité est plus radical que ces exemples qui sont pourtant déjà si significatifs : son inobjectivabilité est originaire et profonde et se manifeste en une ultériorité qu’on ne peut arrêter, pour laquelle la vérité s’en remet aux perspectives les plus diverses en tant qu’elle ne s’identifie à aucun d’entre elles et rend possible le discours seulement en tant qu’elle ne peut se résoudre à son tour en discours. On ne doit pas s’étonner alors qu’on ait pensé à confier plus qu’à la vis vocabuli à l’impénétrabilité du silence et au mystère du néant. On en arrive ainsi à dire que la vérité n’a pas d’autre manière de se rapporter à la parole que celle de s’y soustraire pour se réfugier dans le secret, et seulement moyennant ce retrait la parole se fait éloquente au point que véritablement parlante il y a le silence, origine muette de tout discours ; et que de la vérité il n’y a pas de révélation sans occultation, non seulement parce que qu’elle ne peut apparaître que dans un autre auprès de soi, et ce qui est en soi ne peut être que caché, mais aussi parce que toute manifestation, invitant à l’identifier et à la confondre avec la pensée révélatrice, est elle-même source d’obscurcissement et d’erreur. Et on continue en affirmant que la pensée ne peut véritablement contenir la vérité sinon en affirmant son caractère ineffable : la vérité vient à notre rencontre en sortant du mystère seulement pour y retourner et y rester, parce que son mode d’être présente est proprement une absence, et que son inobjectivité n’est que l’indice de son originaire solidarité avec le néant, et un signe persistant de la mère nuit.

 

 

Ecrit par dcollin le Vendredi 7 Mars 2014, 19:42 dans "Philosophie italienne" Lu 3289 fois. Version imprimable

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