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Pareyson: Verità e interpretazione

Pensiero Espressivo E Pensiero Rivelativo - Introduzione 4

4. Discorso criptico e discorso semantico: demistificazione e interpretazione.

Se ora esaminiamo più da vicino le caratteristiche dei due tipi di pensiero che (lasciando deliberatamente da parte la scienza, che costituisce problema a sé) ho sommariamente delineato — da un lato il pensiero esperto della verità, ontologico e personale insieme, e quindi inseparabilmente rivelativo ed espressivo, e dall’altro il pensiero puramente storico, in cui l’assenza del carattere rivelativo finisce per compromettere anche l’espressione, e ridurla a un’indiretta razionalizzazione della situazione temporale, con vocazione strumentale e tecnica — la prima cosa che in essi ci colpisce è una specie di intervallo fra ciò ch’è detto e ciò che non è detto: in entrambi la parola evoca qualcosa di non esplicito che contiene il vero significato del discorso. Ma ben diversa nei due casi è la portata e la funzione del non esplicito.

Anzitutto: nel pensiero storico la parola dice una cosa ma ne significa un’altra; nel pensiero rivelativo la parola rivela molto più di quanto non dica. Nel primo caso ciò che la parola dice è una costruzione concettuale, e ciò ch’essa veramente significa dev’esser cercato al livello dell’espressione, inconsapevole e mascherata, della situazione storica: la parola non rivela né manifesta né illumina, ma copre e cela e nasconde: il suo λεγειν è un κρυπτειν. Nel secondo caso la parola è rivelatrice, ed è eloquente non solo per quello che essa dice, ma anche per quello ch’essa non dice: infatti ciò ch’essa dice è quella stessa verità che risiede in essa come inesauribile, e quindi molto più come non detta che come detta. Come inesauribile, la verità risiede nella parola senza identificarvisi, ma riservandosi sempre, κατά παρουσια επιστημής κρειττονα: è una presenza che non coincide con l’esplicitazione, e quindi apre la possibilità d’un discorso ulteriore e sempre nuovo. La presenza della verità nella parola ha un carattere originario: è la scaturigine da cui rampolla incessantemente il pensiero, si che ogni nuova rivelazione, più che avvicinarsi progressivamente a un’impossibile manifestazione totale, è la promessa di nuove rivelazioni, e ha quindi un carattere assai p sollecitativo che approssimativo. Si tratta d’un λεγειν ch’è un σημαινειν: la parola significa per la sua fertile pregnanza, che oltrepassa la sfera dell’esplicito senza sminuirla, ma anzi irraggiandosene. Nel pensiero senza verità l’esplicito è cosi poco significativo che, dovendo cercare in altro il proprio significato, rinvia all’espressione nascosta dal discorso: comprendere in tal caso significa smascherare, cioè sostituire il sottinteso all’esplicito. Nel pensiero rivelativo invece l’esplicito è talmente significante che vi si avverte chiaramente la presenza d’una fonte inesauribile di significati: comprendere significa allora interpretare, cioè approfondire l’esplicito per cogliervi quell’infinità dell’implicito ch’esso stesso annuncia e contiene.

Inoltre: il pensiero storico non dice quel che fa; il pensiero rivelativo non dice tutto. Nel primo caso c’è una vera e propria discrepanza fra il dire e il fare, dovuta all’ingenuità o alla mala­fede, per cui l’enunciazione razionale nasconde la vera motivazione: l’aspetto esplicito, ch’è una pretesa rivelazione della verità, è in aperto contrasto con la realtà sottintesa, ch’è la situazione che vi si esprime. Nel secondo caso invece il discorso ha il proprio significato in sé, ma in modo sorgivo, sempre emergente, si che ne risulta un continuo intervallo fra ciò ch’è detto e ciò che resta da dire. Propriamente i termini di parte e tutto non sono i più adatti a descrivere la rivelazione della verità: rivelare la verità non significa né conoscerla tutta, mediante la rimozione d’un velo che ne impedisca la visione completa, né coglierne semplici parti, di cui desiderare l’integrazione progressiva o lamentare la fatale inadeguatezza. Il pensiero rivelativo raggiunge il suo scopo anche se non giunge al « tutto detto », ούτω βαϑύν λόγου εχειν: il suo ideale non è l’enunciazione compiuta d’una realtà più o meno adeguabile, ma l’incessante manifestazione d’un’origine inesauribile. La verità non si lascia cogliere che come inesauribile, e questo appunto è l’unico modo di coglierla « tutta ». Non c’è rivelazione che dell’inesauribile e dell’inesauribile non ci può essere che rivelazione, trattandosi non di cogliere la verità una volta per tutte o di deplorare l’impossibilità di darne una formulazione definitiva, ma di trovare un’apertura ad essa, e trarne un barlume o un lampo, che, per quanto fioco o fugace, è estremamente diffusivo, essendo inesauribile la verità che vi appare.


 

Ancora: nel pensiero storico il non detto è fuori della parola, mentre nel pensiero rivelativo il non detto è presente nella parola stessa, si che mentre nel primo caso comprendere significa annullare il non detto, e portarlo alla completa esplicitazione, sanando la discrepanza fra dire e fare, invece nel secondo caso comprendere significa rendersi conto che la verità non si possiede se non nella forma di doverla cercare ancora. Se nel pensiero storico si tratta di annullare il sottinteso nell’atto di scoprirlo, di smascherare il divario fra il detto e il non detto, di recuperare la totalità del discorso e del suo significato, insomma di operare la demistificazione, dopo di che il compito è finito, invece nel pensiero rivelativo il compito è infinito, perché la verità si offre alla parola proprio in quanto non completamente esplicitabile, e rende possibile il discorso solo in quanto vi risiede senza esaurirvisi, e non si lascia cattivare in un’enunciazione completa proprio in quanto alimenta una rivelazione continua, e adduce come indizio della sua presenza proprio l’intervallo fra l’esplicito e l’implicito, consegnandosi cosi all’unica forma di conoscenza capace di cogliere e possedere un infinito, cioè all’interpretazione. La demistificazione recupera l’irrazionalità inferiore del pensiero storico al culto razionalistico dell’esplicito, mentre l’interpretazione assicura la presenza della verità in un processo di rivelazione incessante e in un’infinità di prospettive penetranti: la demistificazione ristabilisce una totalità mentre l’interpretazione attesta l’inesauribile.

Traduction


 

4. Discours cryptique et discours sémantique : démystification et interprétation

Si maintenant nous examinons de près les caractéristiques des deux types de que (en laissant délibérément à part la science qui constitue un problème en soi) j’ai sommairement délimités – d’un côté la pensée experte de la vérité, ontologique et personnelle à la fois, et donc inséparablement révélatrice et expressive, et de l’autre la pensée purement historique, dont l’absence de caractère révélateur finit par compromettre même l’expression et la réduit à une rationalisation indirecte de la situation temporelle, avec une vocation instrumentale et technique – la première chose qui nous frappe en eux est une espèce d’intervalle entre ce qui est dit et ce qui n’est pas dit : dans les deux cas la parole évoque quelque chose de non explicite qui contient la vraie signification du discours. Mais bien différente dans les deux cas est la portée et la fonction du non explicite.

Tout d’abord : dans la pensée historique la parole dit une chose mais en signifie une autre ; dans la pensée révélatrice la parole révèle beaucoup plus que ce qu’elle ne dit pas. Dans le premier cas, ce que dit la parole est une construction conceptuelle et ce qu’elle signifie vraiment doit être cherché au niveau de l’expression, inconsciente et masquée, de la situation historique : la parole ne révèle, ni ne manifeste, ni n’illumine, mais recouvre, cèle et cache : son legein est un cryptein. Dans le second cas, la parole est révélatrice et elle est éloquente, non seulement pour ce qu’elle dit mais aussi pour ce qu’elle ne dit pas : en effet, ce qu’elle dit est cette même vérité qui réside en elle comme inépuisable, et donc beaucoup plus comme non dit que comme dit. Comme inépuisable la vérité réside dans la parole sans s’y identifier mais en se réservant toujours, kata parousia epistemès kreittona : c’est une présence qui ne coïncide pas avec l’explicitation, et donc ouvre la possibilité d’un discours ultérieur et toujours nouveau. La présence de la vérité dans la parole a un caractère originaire : elle est la source d’où jaillit sans cesse la pensée, si bien que chaque nouvelle révélation, plus que s’approcher progessivement d’une impossible manifestation totale, est la promesse de nouvelles révélations, et a donc beaucoup plus un caractère de sollicitation que d’approximation. Il s’agit d’un λεγειν qui est un σημαινειν : la parole signifie par sa fertile prégnance qui outrepasse la sphère de l’explicite sans la diminuer, mais au contraire en l’irradiant. Dans la pensée sans vérité l’explicite est si peu significatif que, devant chercher en un autre sa propre signification, il renvoie à l’expression cachée du discours : comprendre dans ce cas signifie démasquer, c’est-à-dire substituer le sous-entendu à l’explicite. Dans la pensée révélatrice, au contraire, l’explicite est tellement signifiant que s’y avertit la présence d’une source inépuisable de significations : comprendre signifie alors interpréter, c’est-à-dire approfondir l’explicite pour y saisir cette infinité de l’implicite que lui-même annonce et contient.

En outre : la pensée historique ne dit pas ce qu’elle fait ; la pensée révélatrice ne dit pas tout. Dans le premier cas il y a une véritable discrépance entre le dire et le faire, due à l’ingénuité ou à la mauvaise foi, pour qui l’énonciation rationnelle cache la vraie motivation. l’aspect explicite, qui se prétend une révélation de la vérité, est en contraste ouvert avec la réalité sous-entendue, qui est la situation

qui s’y exprime. Dans le second cas au contraire, le discours a sa propre signification en lui-même, mais sur un mode de surgissement, toujours émergent, de telle sorte qu’il reste toujours un intervalle continu entre ce qui est dit et ce qui reste à dire. À proprement parler, les termes de parties et de tout ne sont plus adaptés pour décrire la révélation de la vérité : révéler la vérité ne signifie ni la connaître toute, en otant un voile qui en empêche la vision complète, ni en saisir les parties simples, dont on désirerait l’intégration progressive ou qui donnerait lieu à des lamentations au sujet de son inadéquation fatale. La pensée révélatrice atteint son but même si elle n’atteint pas l’énonciation totale, ούτω βαϑύν λόγου εχειν : son idéal n’est pas l’énonciation complète d’une réalité plus ou moins ajustable, mais l’incessante manifestation d’une origine inépuisable. La vérité ne se laisse pas saisir comme inépuisable, et ceci est précisément l’unique manière de la saisir « toute ». Il n’y a pas de révélation de l’inépuisable et de l’inépuisable il ne peut y avoir que révélation, s’agissant non de saisir la vérité une fois pour toutes ou de déplorer l’impossibilité d’en donner une formulation définitive, mais de trouver une ouverture vers elle, et d’en tirer une lueur ou un éclair, qui, même faible ou fugace, se diffuse à l’extrême, la vérité qui y apparaît étant inépuisable.

Encore ceci : dans la pensée historique, le non-dit est en dehors de la parole, alors que dans la pensée révélatrice le non-dit est présent dans la parole elle-même, si bien que, alors que dans le premier cas comprendre signifie annihiler le non-dit et le porter à la complète explicitation, en remédiant à la discrépance entre le dire et le faire, au contraire, dans le second cas, comprendre signifie se rendre compte que la vérité ne se possède pas, sinon dans la forme du devoir la chercher encore. Si dans la pensée historique il s’agit d’annihiler le sous-entendu dans l’acte de la découvrir, de démasquer l’écart entre le dit et le non-dit, de récupérer la totalité du discours et de sa signification, en somme d’opérer la démystification, après quoi la tâche est accomplie, inversement, dans la pensée révélatrice la tâche est infinie, parce que la vérité s’offre à la parole proprement en tant que non explicitable complètement, et rend possible le discours, seulement en tant qu’il y demeure sans s’y épuiser, et ne se laisse pas conquérir dans une énonciation complète proprement en tant qu’il alimente une révélation continue, et fournit comme indice de sa présence proprement l’intervalle entre l’explicite et l’implicite, se livrant ainsi à l’unique forme de connaissance capable de saisir et de posséder un infini, c’est-à-dire l’interprétation. La démystification récupère l’irrationalité inférieur de la pensée historique pour l’amener au culte rationaliste de l’explicite, alors que l’interprétation assure la présence de la vérité dans un processus de révélation incessante et dans une infinité de perspectives pénétrantes : la démystification rétablit une totalité alors que l’interprétation atteste de l’inépuisable.

 

 

Ecrit par dcollin le Vendredi 7 Mars 2014, 19:38 dans "Philosophie italienne" Lu 3082 fois. Version imprimable

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