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Luigi Pareyson : Verità e interpretazione – introduzione

6. Non il misticismo dell'ineffabile, ma l'ontologia dell'inesauribile.

Ma per quanto suggestivi e a loro modo significativi, questi termini di teologia negativa sono più adatti all'esperienza religiosa che al discorso filosofico, nel quale non si possono trasferire senza rischio di radicali malintesi. Anzitutto il fatto che la verità è inseparabile dalla singola interpretazione senza mai tuttavia identificarsi con essa non autorizza né ad affermare che la verità non si manifesta mai come sé ma solo come altro, né a sostenere che la parola sia sede inadeguata della verità. Da un lato, se è vero che non si può rivelare la verità se non già interpretandola determinandola, è anche vero che questa interpretazione e formulazione è appunto una rivelazione della verità, e quindi non propriamente altro dalla verità, ma la verità stessa corne personalmente posseduta, e non per il fatto d'essere una rivelazione essa può apparirne come un'alterazione o addirittura un travestimento, perché ne è piuttosto un possesso, tanto più genuino quanto personale e molteplice. Dall'altro lato, se è vero che la parola non può mai essere un'enunciazione esauriente della verità, è anche vero ch'essa è la sede più adatta per accoglierla e conservarla come inesauribile, giacché la verità non tanto si sottrae ad essa per ritirarsi nel segreto, quanto piuttosto le si concede solo stimolandovi permettendole nuove rivelazioni: la verità non è inafferrabilità para, rispetto alla quale il nostro discorso resterebbe irrimediabilmente eterogeneo, e quindi sostanzialmente indifferente, e significante solo nella misura in cui si riducesse a cifra simbolo allusione, ma è piuttosto un'irradiazione di significati, che si fanno valere non con una svalutazione della parola, ma con una trasvalutazione di essa, conferendole un nuovo spessore e una profondità nuova, in cui l'esplicito perde la propria angustia, e sfugge alla tentazione di isolarsi in una presuntuosa sufficienza, e accetta di annunciare esso stesso la ricchezza dell'implicito che porta dentro di sé.

Inoltre l'esaltazione filosofica del mistero, del silenzio, della cifra, rischia d'essere un semplice capovolgimento del culto razionalistico dell'esplicito e di conservarne tutta la nostalgia. Se la verità risiede nella parola senza identificarvisi, non è perché, delusa del discorso, ami nascondersi, ma perché nessuna rivelazione degna del nome la esaurisce. Il pensiero che sfocia inevitabilmente nel Nichtwissen è quello che vuol sapere tutto, cioè proprio l'unwissendes Wissen, mentre solo das sich selbst vernichtende Wissen, cioè un sapere che, conscio dell'inesauribile, dell'Ueberschwengliches, sa rinunciare alla propria presunzione, giunge ad essere un vollendetes Wissen. Che la rivelazione implichi un'inseparabilità di palesamento e di latenza è innegabile, ma il vero fondamento di quel nesso è l'inesauribilità, che impedisce al palesamento, non più alimentato all'origine, di perdersi in un'arrogante esplicitazione, e alla latenza, ormai sottratta al discorso, d'inabissarsi nel mistero. L'inesauribilità è ciò per cui l'ulteriorità, invece di presentarsi sotto la falsa apparenza dell'occultamento, dell'assenza, dell'oscurità, mostra la sua vera origine, ch'è ricchezza, pienezza, ridondanza: non il nulla, ma l'essere; [...]; non l'Abgrund, ma l'Urgrund; [...], non il misticismo dell'ineffabile, ma l'ontologia dell'inesauribile.

7. Fallimento della demitizzazione: irrazionalismo della ragione senza verità.

Ma chi, non pago di queste precisazioni, volesse insistere a demitizzare il pensiero rivelativo, si troverebbe di fronte al vano dilemma di scegliere fra un precario razionalismo e un equivoco irrazionalismo. Per un verso si può credere di poter eliminare il mito col logo, senza pensare che questo è il maggiore dei pregiudizi razionalistici, perché logo e mito hanno funzioni diverse, si che il primo non può sostituire il secondo, né il secondo può essere considerato come una forma inferiore del primo: il mito che si lascia distruggere dal logo non è mito, ma logo embrionale, e il logo che vuol distruggere il mito non è logo, ma mito inconsapevole. Per l'altro verso sarebbe assurdo trarre dal carattere per cosi dire « mitico » del pensiero rivelativo la conseguenza, solo apparentemente più franca e critica, d'una deliberata e programmatica mitologia: ciò significa spostare l'attenzione dalla verità al modo di accedervi, e scambiare per scopo ciò che non può esser che effetto, col risultato che la parola, non più rivelativa, ma arbitraria e irrazionale, si perde nell'incerta allusività del simbolo e della cifra.

In entrambi i casi si dissocia il nesso originario di persona e verità, o perché, per sfiducia nel pensiero, se ne esaspera l'aspetto personale, chiudendolo nell'incomunicabilità d'un'allegoria o d'un'esperienza, o perché, per superstizione della ragione, si vuol sopprimere l'inesauribilità del pensiero riducendolo sotto l'insegna della perfetta adeguazione e dell'esplicitazione completa. Nell'un caso e nell'altro l'esito è in fondo lo stesso, ed è l'irrazionalismo, perché va perduto proprio ciò che preserva il pensiero da una destinazione irrazionale, cioè il suo carattere ontologico, la sua radicazione nella verità.

Ciò che conta non è la ragione, ma la verità: la ragione senza verità non tarda a sfociare nell'irrazionale, perché è pensiero soltanto storico o tecnico, in cui anche gli aspetti piû « teoretici », quali l'interesse puramente culturale della storia delle idee o il rigore strettamente scientifico delle ricerche metodologiche, non resistono a una radicalizzazione che li spinge inevitabilmente all'esito irrazionalistico d'uno storicismo integrale o d'un esplicito prassismo. Dalla giusta necessità di demistificare il pensiero meramente storico ed espressivo non discende dunque per nulla la necessità demitizzare il pensiero rivelativo; ne deriva anzi la consapevolezza che, se non si vuol ridurre il pensiero a puro strumento d'azione o a mera espressione temporale, bisogna preservarne il carattere indivisibilmente personale e ontologico, e ammetterne l'originaria radicazione nella verità.

Traduction
 

 

6 : Non le mysticisme de l’ineffable, mais l’ontologie de l’inépuisable

Mais pour suggestifs et à leur manière significatifs qu’ils soient, ces termes de théologie négative sont plus adaptés à l’expérience religieuse qu’au discours philosophique dans lequel ils ne peuvent se transférer sans risque de radicaux malentendus. Avant tout, le fait que la vérité est inséparable de l’expérience singulière sans jamais toutefois s’identifier avec elle n’autorise ni à affirmer que la vérité ne se manifeste jamais elle-même mais seulement comme autre, ni à soutenir que la parole soit le siège inadéquat de la vérité. d’un côté, s’il est vrai qu’on ne peut révéler la vérité sinon déjà en l’interprétant et en la déterminant, il est aussi vrai que cette interprétation et formulation est justement une interprétation de la vérité et donc n’est proprement autre chose que la vérité, mais la vérité même comme personnellement possédée, et non par le fait d’être une révélation, et celle-là [l’interprétation] peut en apparaître comme une altération ou, plus directement, un travestissement, parce qu’elle en est plutôt une possession plus authentique que personnelle et multiple. D’un autre côté, s’il est vrai que la parole ne peut jamais une énonciation qui épuise la vérité, il est aussi vrai qu’elle est le lieu le plus adapté pour la saisir et la conserver comme inépuisable, puisque la vérité ne se soustrait pas tant à la parole pour se retirer dans le secret qu’elle y consent seulement en la stimulant et en lui permettant de nouvelles révélations : la vérité n’est pur insaisissable, par rapport à quoi notre discours resterait irrémédiablement hétérogène, et donc substantiellement indifférente, et signifiante seulement dans la mesure où on la réduirait à une allusion symbolique chiffrée, mais elle est plutôt un rayonnement de significations qui se font valoir non par une dévaluation de la parole mais par sa transvaluation, lui conférant une nouvelle épaisseur et une profondeur nouvelle, où l’explicite perd sa propre étroitesse, et fuit la tentation de s’isoler dans une présomptueuse suffisante, et accepte d’annoncer lui-même la richesse de l’implicite qu’il porte en lui.

En outre, l’exaltation philosophique du mystère du silence, du chiffre, risque d’être un simple renversement du culte rationaliste de l’explicite et d’en conserver toute la nostalgie. Si la vérité réside dans la parole sans s’y identifier, ne c’est parce que, déçue du discours, elle aimerait se cacher, mais parce qu’aucune révélation digne de ce nom ne l’épuiserait. La pensée qui aboutit inévitablement au Nichtwissen est celle qui veut tout savoir, c’est-à-dire proprement le unwissendes Wissen, alors que seulement das sich selbst vernichtende Wissen, c’est-à-dire un savoir qui, conscient de l'Ueberschwengliches, sait renoncer à sa propre présomption, parvient à être un vollendetes Wissen. Que la révélation implique une inséparabilité de manifestation et de latence est indéniable, mais le vrai fondement de ce lien est l’inépuisabilité qui empêche la manifestation, qui n’est plus alimentée à l’origine, de se perdre dans une arrogante explicitation, et la latence, désormais soustraite au discours, de s’abîmer dans le mystère. l’inépuisabilité est ce par quoi l’ultériorité, au lieu de se présenter sous la fausse apparence de l’occultation, de l’absence, de l’obscurité, montre sa véritable origine, qui est richesse, plénitude, redondance : non le néant mais l’être, non l’Abgrund mais l’Urgrund, non le mysticisme de l’ineffable mais l’ontologie de l’inépuisable.

Échec de la démythisation : irrationalisme de la raison sans vérité.

Mais qui, non satisfait ces précisions, voudrait insister à démythiser la pensée révélatrice, se trouverait face au dilemme vain devant choisir entre un précaire rationalisme et un équivoque irrationalisme. Pour une part, on peut croire pouvoir éliminer le mythe avec le logos , sans penser que c’est le plus grand des préfugés rationalistes, parce que logos et mythe ont des fonctions différentes, si bien que le premier ne peut se substituer au second ni le second ne peut être considéré comme une forme inférieure du premier : le mythe qui se laisse détruire par le logos n’est pas un mythe mais un logos embryonnaire et le logod qui veut détruire le mythe n’est pas un logos, mais un mythe inconscient. D’un autre côté, il serait absurde de tirer qu caractère pour ainsi-dire « mythique » de la pensée révélatrice la conséquence, seulement apparemment plus franche et critique, d’une mythologie délibérée et programmatique : ceci signifie déplacer l’attention de la vérité vers le mode par lequel on y accède et confondre avec l’objectif ce qui ne peut être qu’effet, avec le résultat que la parole, non plus révélatrice mais arbitraire et irrationnelle, se perd dans l’allusivité incertaine du symbole et du chiffre.

Dans le deux cas, se défait le lien originaire entre personne et vérité, ou parce que, par défiance envers la pensée, s’en exaspère l’aspect personnel en l’enfermant dans l’incommunicabilité d’une allégorie ou d’une expérience, ou parce que, par superstition de la raison, on veut supprimer l’inépuisabilité de la pensée en la réduisant sous l’enseigne de la parfaite adéquation et de l’explicitation complète. Dans un cas et dans l’autre, l’issue est au fond la même et c’est l’irrationalisme, parce qu’est perdu proprement ce qui préserve la pensée d’une destination irrationnelle, c’est-à-dire son caractère ontologique, son enracinement dans la vérité.

Ce qui compte, ce n’est pas la raison, mais la vérité : la raison sans vérité ne tarde pas à tomber dans l’irrationnel, parce qu’elle est pensée seulement historique ou technique dans laquelle même les aspects les plus « théorétiques », tels que l’intérêt purement culturel de l’histoire des idées ou la rigueur strictement scientifique des recherches méthodologiques, ne résistent pas à une radicalisation qui les pousse inévitablement vers l’issue irrationaliste d’un historicisme intégral ou d’un « praxisme » explicite. De la juste nécessité de démythifier la pensée historique, il ne découle nullement la nécessité de démythifier la pensée révélatrice ; il en dérive au contraire la conscience que, si on ne veut pas réduire la pensée à un pur instrument d’action ou à une simple expression du temps, il est nécessaire d’en préserver le caractère indissociablement personnel et ontologique, et d’en admettre l’originaire enracinement dans la vérité.

 

 


 

Ecrit par dcollin le Dimanche 6 Avril 2014, 22:35 dans "Philosophie italienne" Lu 4185 fois. Version imprimable

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